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    I bambini di Bucarest: storia di un viaggio all’inferno e ritorno

    25/10/2020 Giorgia Maurovich e Sara Treviglio

    Non ricordo con precisione quando scrissi a Sara per parlarle di Giuseppe Barile, giovane documentarista che vive a Bologna e che si è prestato per farci da guida in un viaggio del tutto inusuale. O meglio, lo ricordo, ma lo scoprii in circostanze molto poco intellettuali legate al mio apprezzamento per le recensioni di cinema…

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    Favole dalla terra di confine: il Holodomor e altri miti

    11/08/2020 Sergio Lanzarini

    Non si vuole mai scrivere a proposito della morte. Si preferisce sempre il romanticismo, le storie pregne d’amore e gioia, con il fiabesco e tanto agognato lieto fine. Pochi si dedicano alle “solite” strazianti rievocazioni dei morti. Io, d’altra parte, credo che non si ricordi mai tanto quanto si dovrebbe. Più osservo il mondo che…

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    Ritorno al Giardino dell’Eden: una trilogia sovietica postuma

    09/07/2020 Sergio Lanzarini

    L’uomo non può fare a meno di sognare in grande, è insito nella propria natura che egli non smetta mai di desiderare di avere più di quello è già in suo possesso. Dalle origini dell’umanità fino ai giorni nostri, l’uomo non ha mai interrotto la sua ricerca di un futuro migliore. Anzi, potremmo affermare oltre…

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    Amal’rik e il caso Rasputin: alla ricerca dell’oggettività. Gli ultimi anni dell’Impero russo

    31/05/2020 Alessio Mangiapelo

    There lived a certain man, in Russia long ago… Così si apre una delle canzoni più celebri della disco anni ’80, che riassume perfettamente l’idea di Rasputin che permase nell’immaginario collettivo a partire dalla sua morte. Il suo nome è seguito da grande fama quanto da opinioni molto contrastanti. Durante l’ultimo secolo è stato spesso…

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    Černobyl’: la morte che viene da sotto terra e aleggia nell’aria

    29/04/2020 Sergio Lanzarini

    La rievocazione di un’immagine nella propria mente, ecco cos’è un ricordo: una fusione di forme, colori, sapori e sensazioni che dal vuoto del passato tornano per abitare il presente, in una realtà tanto astratta quanto concreta. Noi tutti siamo circondati da ricordi; viviamo ogni singolo giorno senza mai smettere di evocare ciò che è stato.…

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Ritorna la nostra #doomenica e proprio alle porte Ritorna la nostra #doomenica e proprio alle porte di uno dei momenti più attesi dell’anno: il Blue Monday! Per festeggiarla al meglio, davanti a una buona bottiglia di vino scadente, cuffie di pessima qualità e lacrime amare dopo la mezzanotte, oggi vi proponiamo un gruppo storico della scena post-punk sovietica: i Kino.
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Operativi nel bel mezzo degli anni ’80, i Kino entrano nell’Olimpo della musica russa soprattutto grazie alla mente e personalità di spicco del frontman Viktor Coj. Figlio di un’insegante e di un ingegnere di origine coreana, Viktor inizia giovanissimo a comporre musica in quel di Leningrado, fino a fondare con Rybin e Valinskin nel 1981 prima i Гарин и Гиперболоиды e poi i Kino, di cui faranno parte anche negli anni Jurij Kasparjan, Georgij Gur’janov, Igor’ Tichomirov e Aleksandr Titov.
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Il gruppo esordisce ufficialmente nel 1982 con l’album 45 e dopo l’uscita dal gruppo di Rybin pubblicano l’album 46, ma il vero successo arriva nel 1987 con l’album Группа крови, caratterizzato da tinte fortemente polemiche a livello sociale e politico. La band riscì a organizzare anche un tour europeo e Coj, dopo il successo con la band, ebbe diversi ruoli in alcuni film, ma ciò non lo distolse dalla sua vita semplice, in cui rifuggiva ogni forma di sfarzo.
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Il 15 Agosto del 1990 Viktor Coj morì in un incidente stradale in Lettonia, probabilmente dovuto a un colpo di sonno mentre guidava, lasciando la moglie Marianna e suo figlio Alexander di cinque anni. La notizia ebbe una eco enorme in Russia e venne accolta molto male dai fan della band: alcuni di loro, appartenti alla schiera dei più giovani, si suicidarono dopo l’avvenimento. Dopo l’uscita dell’ultimo album, il gruppo si sciolse.
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Una delle canzoni più famose del gruppo, Пачка сигарет, ha assunto un significato molto particolare per il popolo bielorusso: negli ultimi tempi di rivolta, il brano viene malinconicamente identificato come canto di rivolta per una Bielorussia finalmente libera.
Anna Politkovskaja è una figura che, per compren Anna Politkovskaja è una figura che, per comprendere la Russia contemporanea, va assolutamente conosciuta. Assassinata nel 2006 in circostanze non ancora ufficialmente chiarite, Politkovskaja è diventata un simbolo della causa dell’opposizione e dei diritti umani nella Cecenia colpita dalla guerra, nonché un esempio encomiabile di giornalismo e impegno politico. Oltre alle traduzioni e alle pubblicazioni delle sue inchieste, qui in Italia le sono state dedicate anche opere come gli splendidi Quaderni russi di Igort.
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La Russia di Putin, scritto nel 2004 e uscito in Italia per @adelphiedizioni, è un testo chiave per comprendere quanto sia accaduto nei primi anni del governo Putin. Originariamente scritto in inglese e pensato per un pubblico non russo, il volume raccoglie reportage, testimonianze e atti giudiziari da processi che hanno palesato dei problemi endemici della Russia: corruzione, perizie false, tangenti, speculazione, criminalità organizzata e violenza sistemica nell’esercito e nelle carceri.
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Con la sua indagine, Politkovskaja si pone l’obiettivo di sfatare il mito occidentale di un Putin uomo forte e tutto d’un pezzo, mostrando come il suo stesso potere si fondi sulle crepe del sistema che ha saputo sfruttare. Le voci chiamate in causa sono eterogenee, da vicine di casa a ufficiali dell’esercito in Kamčatka, fino ad arrivare ai testimoni dell’attacco terroristico al teatro Dubrovka, in cui le forze speciali russe uccisero 168 persone tra combattenti e civili.
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Lo stile di Politkovskaja è limpido, il linguaggio è semplice, ma non risparmia i dettagli più crudi. La sua missione, lo dice lei stessa, è dare priorità alle testimonianze vissute sul campo, non alle proprie opinioni: “Io vivo la vita, e scrivo di ciò che vedo”, chiarisce nella nota d’apertura al volume.
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Quello che vide, nonché quello che molte persone vissero sulla loro pelle, non era certo idilliaco. Eppure, anche dopo il tragico assassinio, a cui nessun membro del governo russo partecipò, la determinazione e il risoluto desiderio di giustizia di Politkovskaja continuano a ispirare migliaia di persone in tutto il mondo.
Mentre l’opinione pubblica in Polonia si spacca Mentre l’opinione pubblica in Polonia si spacca intorno ai finanziamenti illeciti forniti dal ministro della giustizia Zbigniew Ziobro ai comuni con le famigerate zone LGBT-free, che ricordiamo essere stati penalizzati dall’UE, è iniziato oggi, 13 gennaio, ironicamente la giornata mondiale per il dialogo tra religioni e omosessualità, il processo riguardante uno dei più grandi casi mediatici dell’attivismo LGBT+ in Polonia.
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Nella città di Płock, vicino a Varsavia, la psicoterapeuta e attivista Elżbieta Podleśna appese, nell’aprile del 2019, dei poster raffiguranti la Madonna nera di Częstochowa, un simbolo storico e nazionale di estrema importanza per i polacchi, con l’aureola dipinta dei colori dell’arcobaleno in segno di protesta verso l’intolleranza del fondamentalismo cattolico, che qualche tempo prima aveva fatto riferimento all’ “ideologia gender e LGBT” come un peccato. Oltre ai poster, Podleśna tappezzò i cestini dei rifiuti di liste di vescovi che si vociferava avessero protetto dei preti pedofili.
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Il mese dopo Podleśna fu arrestata per offese al sentimento religioso, e il suo caso è tuttora seguito e supportato da Amnesty e da altri organi per la tutela dei diritti umani. La vicenda dell’attivista suscitò molto clamore anche nel dibattito pubblico, e ottenne una levata di scudi persino da alcuni intellettuali cattolici che si opposero all’intervento dello Stato in questioni prettamente religiose.
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La petizione di Amnesty per far cadere le accuse conta a oggi più di 100.000 firme, e tra le organizzazioni che stanno seguendo il caso si conta anche Freemuse, che si occupa di tutela della libertà artistica. L’articolo 196 del codice polacco, che riguarda proprio la libertà d’espressione, è il principale oggetto del dibattito: la sua applicazione da parte delle autorità è spesso arbitraria, e potrebbe portare a nuovi scontri con l’UE.
Ci sono tre domande che oggi in Bosnia non si fann Ci sono tre domande che oggi in Bosnia non si fanno: come sta tuo marito? Come sta tuo figlio? Che cosa facevi durante la guerra?
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Al termine delle guerre jugoslave, chi viveva dalla nostra parte della cortina di ferro ricorda Vukovar, i campi di sterminio, le fosse comuni, Srebrenica.
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Ma la guerra è stata combattuta su più fronti, e il corpo delle donne in quegli anni è diventato un terreno di battaglia, utilizzata da un lato come ventre in cui inoculare il bambino-nemico, e dall’altro come mezzo per svilire e svirilizzare la comunità maschile. Nei moventi che si celano dietro l’impiego dello stupro come arma di guerra, è evidente che violenza sessuale e massacro sono due facce complementari per l’annientamento di un’intera comunità.
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La differenza, oltre alla natura della violenza sessuale come esecuzione sospesa, è che delle vittime donne si è detto troppo poco, tanto da assurgere alla dimensione di vittime invisibili nella storia jugoslava.
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Una delle prime scrittrici jugoslave a raccontare gli stupri etnici in Bosnia-Erzegovina e a cercare i primi contatti con le vittime è stata la croata Slavenka Drakulić, ed è proprio dalle sue interviste e ricerche giornalistiche che arriva a pubblicare, nel ’99, un romanzo che vuole narrare l’inenarrabile, dando voce al silenzio di quelle donne, troppo a lungo ignorate e sacrificate sull’altare della pace a tutti i costi.
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@saradeonn ha scritto per noi uno splendido pezzo sulla situazione delle donne in Bosnia, che va dalle testimonianze del Tribunale internazionale dell’Aia alle inchieste e ai romanzi di Drakulić. Lo trovate come sempre in bio o su estranei.org!
Scordatevi il palio di Siena. Se esiste una vera c Scordatevi il palio di Siena. Se esiste una vera competizione di cavalli capace di tener testa persino a una delle migliori saghe di Jojo (don’t @ us), si trova ai confini tra la Siberia e la Mongolia. Esattamente. Nei territori come Tuva o la Jacuzia l'allevamento dei cavalli da parte della gente del luogo è ormai un fenomeno millenario.
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In certi periodi dell'anno vengono organizzate, insieme ad altri eventi come competizioni di wrestling, corse di cavalli che si protraggono per più di 30 km. A Tuva questa competizione avviene solitamente nel periodo di agosto e in zone non urbanizzate.
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In altre regioni della Siberia queste gare possono svolgersi durante determinate ricorrenze, come per esempio il capodanno lunare (ne abbiamo parlato in uno dei nostri primissimi post) a temperature bel al di sotto dello zero.
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Per queste culture, il cavallo, più che uno Stand, è un animale sacro legato allo sciamano. La sacralità di questo animale è tale da essere sopravvissuta anche nella cultura ungherese, che presenta legami con lo sciamanesimo siberiano. Abbandonato il culto dello sciamanesimo dopo la conversione, la cultura ungherese non ha però smesso di rendere il cavallo protagonista indiscusso delle sue fiabe.
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Questa competizione ha un valore particolare e va ben al di là della semplice sfida o del combattimento contro Funny Valentine o Diego Brando. È la celebrazione della forza e della resistenza di un popolo, la cui esistenza si basa sull'ascolto del volere della Natura e non di quello dell'uomo.
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D’accordo, mancheranno i combattimenti al cardiopalma, i dinosauri e i presidenti opinabili, ma da questa tradizione è derivato un vigore unico, capace di sfidare condizioni di vita terribilmente ostili grazie al patto che questa gente ha fatto con questo animale magico.
L’unico buon proposito di noi admin per il 2021, L’unico buon proposito di noi admin per il 2021, che più che un proposito è una speranza in qualcosa che non dipende da noi, è ricominciare a viaggiare.
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All’inizio del 2020, anche a fronte di un viaggio in Lituania fallito la mattina stessa causa imprevisti, Sara e io ci eravamo ripromesse di farci un giro a Ljubljana, anche a fronte della comodità geografica rispetto a dove viviamo. Poi sappiamo com’è andata, e Ljubljana ce la siamo goduta in foto.
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Queste foto le avevo scattate l’8 dicembre 2016, avevo appena iniziato l’università. Le mie tre giornate in Slovenia con la mia amica Giulia, da vacanza ✨aesthetic✨ da Karen imborghesita si rivelarono un’apocalisse zombie di turisti italiani che parlavano soltanto del referendum.
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Il ponte in questione, una delle principali mete della città, è il Tromostovje (alias triplo ponte), costruito come ponte singolo nel 1842 e dedicato all’arciduca Francesco Carlo d’Asburgo-Lorena. L’idea degli altri due ponti laterali si ebbe appena novant’anni dopo, non per ragioni estetiche ma pratiche: passando per piazza Prešeren, uno dei punti nevralgici della città, era necessario non creare ingorghi.
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Nell’ultima foto, le luminarie natalizie di piazza Prešeren, siamo un po’ in ritardo per i post festivi ma sono comunque belle dai.
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Piccolo disclaimer, no, non è il ponte della barzelletta di Žižek. E un’altra chicca, già a dicembre 2016 c’erano i tour guidati a tema per i luoghi della gioventù di Melania Trump. La curiosità di vedere come si sono evoluti devo dire c’è, non andrò a mentire.