Da sempre ascolto tanta, tantissima musica, a casa, sui mezzi, mentre guido, al lavoro. La mia conoscenza della “musica jugoslava” (qualunque cosa voglia dire) è stata inevitabilmente influenzata dai periodi trascorsi a Zagabria e a Skopje e dagli anni passati in Bosnia Erzegovina. Viene dai viaggi di 15 ore in autobus in cui gli autisti tormentavano le orecchie dei passeggeri con playlist spaventose. Deriva dalle migliaia di ore passata ad ascoltare la radio, la 103 di Skopje nel migliore, RSG o Radio Tuzla nel peggiore dei casi – grazie ai tassisti, grazie alle mie colleghe con lo stereo a tutto volume acceso in ufficio. Dalle serate in terrificanti discoteche di Banja Luka e Sarajevo – quei posti dove si va quando pur di avere compagnia si seguono i più improbabili compagni di corso. Deriva da una playlist lunga e senza senso nata per un compleanno alla kafana Marijin Dvor di Sarajevo e a cui ha preso parte il mio amico Giorgio. Viene infine dai pomeriggi passati a ripararsi dallo smog assieme a Damir, il più grande odiatore dello Yugo Rock, troppo vecchio per avere l’ironia hipster e ridere della turbofolk, a cui dedico questo articolo anche se non capisce l’italiano.
Piccola avvertenza: chi non avesse voglia di leggere tutto l’articolo può ascoltare le canzoni sulle playlist Youtube e Spotify (dove purtroppo non sono disponibili tutte le canzoni). Consigliamo quindi di fruire dell’esperienza guardando i video su Youtube, ché l’estetica è parte integrante del viaggio nel trash balcanico.
PROLOGO: la feticizzazione della musica balcanica
Alcuni anni fa, per il loro matrimonio, due amici mi chiesero di mettere musica balcanica. Mi sentivo in imbarazzo: come soddisfare le aspettative degli invitati inebriati dall’alcol che speravano di saltellare al ritmo di Kalashnikov, come cavalcare la hipster irony mettendo musica trash senza sentirmi un’appropriatrice culturale che sfotte l’intera penisola balcanica?
Nell’immaginario collettivo italiano, la musica balcanica è quella che ha conosciuto grande popolarità grazie a Goran Bregović prima e ai viaggi al Guča, il festival delle trombe che si tiene ogni estate in Serbia. Questo ha contribuito alla nascita, in Italia e in Europa, di gruppi che suonano tromba-tamburo-fisarmonica proponendo un repertorio eclettico di musica “zigana”, ballate klezmer e canzoni popolari balcaniche in senso tanto ampio da diventare oggetto di scherno in una canzone di Elio e le Storie Tese. Per colpa di Degrado Post Sovietico sono persino diventati involontariamente famosi i più improbabili musicisti con le più improbabili canzoni.
In un certo senso, Goran Bregović è una specie di entry level di conoscenza non solo della musica balcanica ma anche dei Balcani (leggi: Jugoslavia e lingua serbo-croato-bosniaca, sperando che l’Ambasciata della Croazia non legga) più in generale. Nessuna critica, been there, done that. Questo avrebbe dovuto essere un articolo sulla turbofolk come epitomo del trash balcanica, ed è diventato un’antologia abbasta fluida e sicuramente parziale attraverso la musica ex-ju. La mia conclusione è che forse l’attaccamento allo Yugo Rock è più trash dei travestimenti di Jelena Karleuša.

CAPITOLO 1: l’amante dei Balcani jugonostalgico
Struggimento d’amore: la Bosnia (Erzegovina) che ti ruba il cuore, la sevdah
È il 2010 e Paolo Rumiz pubblica La Cotogna di Istanbul, una struggente storia d’amore ambientata nella Sarajevo di fine anni ’90 scritta in versi, ricalcando la struttura della nota sevdalika Žute dunje. Voglio pensare che la diffusione tra gli amanti dei Balcani in Italia abbia più o meno origine qui.
La sevdah (o sevdalinka) è un genere musicale il cui nome deriva dalla stessa parola araba di saudade. I testi vengono dal folklore ma anche e che spesso canta di struggimenti amorosi. Pur essendo un genere musicale che ha sempre avuto un grande seguito (Tito compreso), in questi ultimi anni è stato rispolverato e reinterpretato da giovani autori, più o meno eccentrici. Se vogliamo, i giovani si sono riappropriati delle sevdalinke della tradizione e ne hanno fatto simbolo di battaglie nuove: Snijeg Pade Na Behar Na Voce, con il suo “ama chi vuoi” è diventato il quasi inno della comunità LBTIQ+ di Sarajevo.
Suona rock’n’roll tutta la Jugoslavia: lo Yugo Rock
Lo Yugo Rock, un non-genere contenitore delle più disparate produzioni musicali dagli anni ’70 fino alla disgregazione della Jugoslavia che più strizzavano l’occhio alle mode musicali occidentali, è un vero e proprio feticcio degli appassionati di Jugoslavia. A Sarajevo hanno persino aperto un museo. Questa ossessione per lo Yugo Rock è uno degli aspetti più pop e visibili della jugonostalgija: ricordare un fenomeno di successo del periodo spensierato che ha preceduto la catastrofe.
La produzione musicale di questo periodo è sterminata, e va dal rock’n’roll in senso più stretto, per passare attraverso il pop, le canzoni d’ispirazione arabeggiante, i sosia (?) di Renato Zero e un minimal synth vagamente londinese. All’interno di questo contenitore troviamo gruppi la cui fama è sopravvissuta alla morte della maggior parte dei membri; pionieri del post-punk e dell’elettro pop; autori che hanno preferito l’esilio alla disgregazione della propria patria (e che sono in cause miliardarie con i paesi successori). Ci sono i veri punk, i punk finti che hanno cavalcato l’onda e quelli che si sono bruciati con la droga. Infine, ci sono gli oltranzisti che, nonostante i capelli tinti o gli innumerevoli cambi di bandiera e formazione, continuano a presenziare a eventi e festival. C’è pure quel prezzemolino di Bregović che ogni tanto tira fuori la band con cui ha cominciato.
È tutto molto bello, finchè non andate alla milionesima festa in cui sentite cantare dagli ubriachi urlanti Dino Dvornik o, peggio, Plavi Orkestar che ci dice come è meglio essere ubriachi che vecchi.
Una volta qui era tutta campagna: il riflusso della musica popolare
Una delle teorie che ha monopolizzato per anni l’analisi delle guerre jugoslave sostiene che di fatto si sia trattato di uno scontro tra centro e periferia, tra élite di città e lo zoccolo duro contadino proveniente dalle campagne e dalle montagne. Si potrebbe cercare di comprendere la nascita della turbofolk così, come un riflusso popolare dopo un decennio caratterizzato dalle sperimentazioni cosmopolite di gruppi post-punk e synth wave. Sicuramente la turbofolk è generalmente conosciuta per i suoi aspetti più socio-politici (del resto Ceca, una delle pioniere del genere, era la moglie del criminale di guerra Zeljko Raznatović – Arkan).
Tuttavia, tra kafane e feste di paese, tra tamburaši, narodnjaci e džigera, la musica popolare ha sempre avuto nei paesi dell’ex-Jugoslavia un nutrito seguito, e il successo dei nazionalisti può aver influito, più che sulla nascita del genere musicale in sé, sulla sua diffusione. Durante gli anni ’80, grazie alle prime incursioni di musica elettronica, la narodna muzika comincia a prendere una forma nuova. Simbolo di questa nuova moda è senza dubbio Lepa Brena, Fahreta Jahić di Brčko, che diventa famosissima grazie alle canzoni della commedia-musical Hajde da se volimo, tra cui Jugoslovenka. Più volte accusata di aver tradito le sue origini, Brena è probabilmente la più grande popstar jugoslava e sicuramente tra le prime ad aver proposto un certo canone estetico.

CAPITOLO 2: i fondamenti del trash
La tigre e il mafioso
Il periodo che va dallo scoppio della guerra in Croazia nel 1991 e la fine dell’embargo NATO conosce un’esplosione della turbofolk, spesso legata al mondo della semi-legalità, di gruppi paramilitari impegnati nel conflitto e da bande mafiose che tormentano la periferia di Belgrado.
Ceca è senza dubbio il simbolo di questo periodo: Svetlana è moglie di Zeljko Raznatović, ovvero l’Arkan delle Tigri, gruppo paramilitare noto per le violenze sulla popolazione civile nella Bosnia nord-orientale e nell’est della Croazia. Già stellina a inizio anni ’90, diventa famosissima nella seconda metà del decennio. Assieme alla sua popolarità, crescono anche gli interventi estetici, che la plasmeranno in uno degli esempi estetici del genere musicale.
Un’altra incredibile trasformazione è quella di Jelena Karleuša. Spilungona di buona famiglia con frequentazioni tra i criminali di Zemun, pian piano costruisce un’estetica più che eccessiva (e accusa più volte Beyonce e Lady Gaga di averle rubato il look).
La turbofolk è il vero lato trash della produzione musicale balcanica. Da qui in poi parlerò in maniera abbastanza fluida di musica trash ex-jugoslava chiamandola turbofolk. Oltre ad essere trash, la turbofolk è anche molto popolare e mi azzarderei a definirla la vera musica balcanica contemporanea: senza i criminali di guerra, ma molto probabilmente coi mafiosi, la turbofolk esiste anche negli altri paesi della regione balcanica, ma ha nomi differenti (ad esempio in Bulgaria si chiama chalga). Ci sono persino dei produttori geniali che una volta impacchettata una canzone, la ripropongono attraverso varie interpreti su più mercati. Certi hanno provato a collegare la turbofolk a movimenti sociali più recenti, forse anche grazie alla vocalità di Jelena Karleuša sulle tematiche LGBTI+, ma viste le posizioni della stessa su vaccini e Trump, penso che sia parecchio scivoloso dare alla turbofolk meriti che non ha.
Avioni Kamioni Silikoni
La brava ragazza della turbofolk potrebbe essere Severina. Già famosa negli anni ’90 per le sue ballate, la sua produzione musicale scivola lentamente dal folk al turbofolk. Tra Brad Pitt e terrificanti coretti in italiano, Severina è una delle poche cantanti ad avere un minimo di autoironia e a cantare di chirurgia plastica.
La chirurgia plastica non è cosa solo delle donne: la trasformazione di Deen è degna di quella delle sue colleghe donne citate poco sopra. Sicuramente non è una brava ragazza Stoja (da non confondersi con Stoya), che senza mezzi termini chiede all’interlocutore se ha voglia di fare sesso. Un’altra cattiva ragazza è Tijana, la “donna del Sultano”, che se la fa con la guardia del corpo del marito.
Gli amori infelici, le nuove conquiste e il desiderio di scacciare con chiodo il chiodo sono uno dei principali temi delle canzoni turbo. Dara Bubamara vuole una “notte per noi”, i re dell’autotune Elitni Odredi passano col rosso per raggiungere la loro conquista, MC Stojan spera che qualcuno gli spari al cuore. Certi vogliono dimenticare facendo festa per 1001 notte, altri guidando con il “gas a tavoletta”, altri ancora procurandosi il coma etilico.
Io una Mercedes nera, lei un’Audi nuova
Rasta è forse il primo a dare una svolta hip-hop reggeaton alla musica trash nella regione. Senza risparmarsi in status symbol. Dopo Kavali, niente è stato più come prima. Tra reggeaton e trap si afferma il golden duo di Sarajevo, Jala Brat e Buba Corelli. Ignorando con nonchalance le battute sull’incomprensibilità della parlata di Jala Brat, hanno prodotto praticamente tutti gli artisti sopracitati. Uno dei sodalizi più produttivi è con Senidah, cantante slovena di orgini montenegrine.
Infiniti i gli aspiranti trapper. A Sarajevo, la musica di INAS intrattiene gli avventori dei mille narghila bar.
Ingraziarsi la dijaspora e altre forme di cooperazione transfrontaliera
Se nessuno si stupisce più di tanto per le produzioni miste all’interno della cosiddetta Yugosphere, sicuramente questo pazzo gioco di parole serbo-bulgaro (karam in bulgaro vuol dire “io guido”, in serbo, tra le altre cose, “io scopo”), ma del resto si tratta di quel pazzerello di DJ Krmak, che non si sa mai se sia serio o meno. Vista la massiccia diaspora di persone provenienti dalla ex-Jugoslavia in Europa, gli artisti spesso estendono le loro turnée in Germania, in Austria, in Svezia e anche in Italia. (come Jelena Karleuša). Ma per avere davvero successo e allargare il mercato, l’industria discografica ha finalmente cominciato a fare featuring con cantanti locali o mescolando le lingue. E senza dubbio la capitale della diaspora è Beč, Vienna.
CONCLUSIONE: è possibile rifarsi le orecchie?
C’è poi, ovviamente, tantissima musica balcanica “normale”. E non parlo di quelli che fanno “musica impegnata”. Ci sono gruppi che fanno musica nelle lingue locali in linea coi trend globali. C’è chi fa synth-pop che richiama i gloriosi anni ’80, ci sono gli hipster delle capitali, c’è una certa paranoia in Bosnia-Erzegovina. La gloriosa Radio-103 di Skopje è un buon modo per tenersi aggiornati.
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