Dovevo essere molto piccola, perché ho ricordi estremamente fumosi di quei frammenti di diapositive. Ricordo molto bene però come in quel momento lo stomaco si torcesse in una pulsazione mentre la mente iniziava a evaporare, smettendo di sentire i suoi stessi pensieri. Ricordo mia madre che mi esortava a guardare il ballerino russo schizzare da un angolo all’altro dello schermo. Si trattava di Rudol’f Chametovič Nureev.
Mia madre ha sempre adorato il balletto classico. Da bambina a volte faceva le ore piccole per vedere i balletti in seconda serata. Crebbi sviluppando a mia volta un certo debole per la danza. è da molto ormai che non guardiamo più dei balletti assieme. Mi manca la sensazione che mi pervadeva mentre osservavo i ballerini. Era una sensazione calda, che stordiva. Fra tutti i ballerini era Nureev che preferivo. Non era solo la danza ad attrarmi, ma il modo in cui trasformava sé stesso dentro l’atto della danza. Ricordo che sentivo la pelle del volto bruciarmi mentre lo osservavo luccicare dallo schermo e sfilacciare con i suoi salti le trame del buio.
In molti rimangono folgorati dalla bellezza delle coreografie e dalla precisione dei movimenti, ma non sanno che in verità quello è un linguaggio emotivo che va oltre la semplice tecnica. Se non si capisce questo non si può capire la danza. La tecnica, anche se essenziale, è una percentuale irrisoria di tutta l’esibizione. È l’“intenzione”, la capacità cioè di dare forma al sentimento attraverso il corpo, la vera chiave d’accesso a questo linguaggio. Nell’intenzione stanno nascoste tante abilità che operano segretamente per animare ciò che noi chiamiamo talento. La sensibilità verso la natura e i suoi moti, l’osservazione dell’altro, lo stare in ascolto dell’interno. Credo che in questo Nureeev fosse grande. Si ascoltava e ascoltava lo scambio che c’era tra il dentro e il fuori. Non ha mai posto limiti all’ascolto, perché è nell’ascolto che arriva la capacità di espressione.
Non avevo mai saputo nulla di lui, di Nureev. Fu nel periodo in cui mi trovavo a Mosca che lo sguardo riabbracciò la fisionomia dura del suo viso. Tenevo la fronte appoggiata al vetro del finestrino dell’autobus e la figura del ballerino scivolò letteralmente sotto le mie palpebre, facendomi alzare la testa di colpo. Lessi sulla locandina che avrebbero dato al cinema un documentario sulla sua vita. Tornata in studentato bussai pesantemente alla porta di Claudia. Volevo venisse con me a vedere il documentario. La domenica pomeriggio ci dirigemmo al cinema. Fuori il tempo aveva il grembo gravido di nuvole pesanti. Il titolo del documentario, per quanto altisonante, rendeva bene l’idea della fama del ballerino “Нуреев. Его цена – весь мир” – Nureev. Il mondo intero è il suo palco. Non eravamo molti in sala e questo mi piacque perché rese la visione del documentario estremamente intima. Alle immagini di repertorio della vita del ballerino si alternavano spettacolari numeri di danza a lui dedicati.
Era di sangue tataro. Frutto di numerose unioni di uomini e donne, era un sangue diverso da quello russo. “Il nostro sangue scorre più veloce”. Aveva ragione. La frenesia del suo sangue si manifestava nella drammaticità della sua danza – così come nelle esplosioni di rabbia che a volte lo portavano a percuotere altri ballerini durante le prove -. Era nato all’incrocio di più mondi. La madre lo aveva partorito durante un viaggio in transiberiana. Fu immediatamente accolto tra le braccia del lago Bajkal, che si piegò su di lui per specchiarsi nei suoi occhi. Forse se chiedessimo oggi al lago che cosa intravide quel giorno, ci racconterebbe una storia che ormai conosciamo.
Il suo esordio alla vita fu difficile fin dall’inizio. Insieme alla madre e alle tre sorelle fronteggerà le efferatezze della Seconda guerra mondiale. Il padre non è presente in quel momento, si trova nell’esercito a combattere. Per quanto questa affermazione possa sembrare eccessiva, l’assenza del padre fu un bene per Nureev. La sua lontananza gli permise di crescere libero dall’autorità e dalla ferocia paterna. Crebbe avvolto invece in un clima tenero, protetto e amato dalla madre e dalle sorelle che lo esortavano a ballare. Sapevano prima di lui che avrebbe danzato tutta la vita.
Nureev conobbe presto il nome dell’inquietudine che lo tormenta come uno spettro. Stordito dai fumi della sua giovane età non era ancora riuscito a mettere a fuoco la sagoma che lo aspettava al confine tra carne e spirito. È dopo aver visto lo spettacolo nel piccolo teatro del suo villaggio che finalmente riesce a dare un nome a quella sua inquietudine. È la danza. Se la madre e le sorelle erano entusiaste della sua scelta, lo stesso non si può dire del padre, che disprezzava qualsiasi genere di danza. Negò al figlio il diritto di danzare arrivando a picchiarlo selvaggiamente, a volte persino mentre il ballerino sta dormendo.
Nureev non ha intenzione però di farsi soggiogare. La notte fugge per ballare assieme a dei gruppi di danza folcloristici amatoriali, distinguendosi immediatamente dagli altri per il suo talento. A undici anni finisce sotto l’ala protettiva dell’anziana ballerina Anna Udel’cova, una delle personalità più incredibili del panorama del balletto russo. Anna è una donna colta e intelligente. Ogni fine settimana si dirige nella capitale per aggiornarsi sulle ultime innovazioni della danza, e al suo ritorno intrattiene i suoi allievi con lunghi racconti su ciò che aveva visto. Udel’cova intuisce la grandezza del talento del giovane e lo incoraggia a partecipare ai provini della prestigiosa scuola di danza del teatro Kirov a Leningrado. Il rapporto fra i due è profondo, si vogliono bene e il legame d’affetto fra i due sarà fondamentale per Nureev che ha trovato nella donna lo spirito che ha risvegliato il suo.
Si trovava con sua sorella Lara quando prese la decisione di partire: “C’è un unico treno che parte da qui e tu lo devi prendere”. Quella frase lo spronò a intraprendere un viaggio di tre giorni e mezzo verso Mosca, per compiere poi altre sedici ore di viaggio che lo avrebbero portato a Leningrado. Lungo il tragitto si ferma a Mosca per tentare un provino al teatro Bol’shoj, superandolo brillantemente. Decise comunque di continuare il suo viaggio. Il suo sogno era entrare all’Accademia di danza del teatro Kirov. Una volta arrivato a Leningrado, supera il provino per la scuola di danza Kirov e in soli tre anni completa il suo percorso di studi, entrando immediatamente nella Compagnia di Balletto del teatro.
Nureev credeva di avere finalmente ottenuto la sua libertà, non sapeva che per il regime rappresentava un pezzo di carne da forgiare. Volevano fare di lui la macchina d’acciaio, modellata dai colpi pesanti degli arti meccanici del regime. Non hanno intuito l’essenza vaporosa del corpo del ballerino. Era impossibile colpirlo o intrappolarlo, perché i colpi lo attraversavano senza ferirlo mai. Non apparteneva al loro mondo, al mondo delle macchine, ma al caos della natura. Il Partito realizzò la sua indomabilità durante la sua prima esibizione all’estero. Sul palcoscenico di Vienna Nureev smise di essere mortale. L’uomo non esiste più, al suo posto prende forma un riflesso divino in perenne comunicazione con un altro piano di realtà. Chiama a sé gli elementi e i suoi movimenti sembrano mossi dalle braccia dell’aria che lo sostengono mentre è in volo. La sua bellezza tatara, oscura e sensuale è così intensa da adombrare la maestosità dell’Unione Sovietica. L’intensità di Nureev spaventò il regime, che gli ritirò così il permesso di espatrio. Da quel momento in poi Nureev è costretto a danzare esclusivamente in patria. Il caos però è dalla sua parte. Il primo ballerino della Compagnia di Teatro Kirov si infortuna e venne concesso così a Nureev di andare a Parigi per sostituirlo.
L’approdo nella Capitale spiazzò totalmente il ballerino, che per la prima volta si scontrò con lo stile di vita occidentale. Quel mondo sembrava averlo aspettato per secoli e finalmente Nureev poteva ricongiungersi a esso. Strinse subito nuove amicizie, con le quali iniziò a frequentare i locali gay di Parigi. Intanto, la sua esibizione all’Opera raggiunse un tale successo che vennero organizzate delle repliche a Londra. Il Partito non era per niente contento del successo di Nureev: il suo talento continuava a mettere il risalto la bellezza del caos e dell’imprevedibilità e non la potenza ordinata del regime. Persino gli altri ballerini della compagnia finirono in secondo piano. Non era la forza e la disciplina della compagnia sovietica a emergere durante le esibizioni, ma la bellezza folgorante di Nureev. I suoi movimenti sbranavano la realtà attorno a lui mentre le sue interpretazioni erano in continuo cambiamento. Ogni sua esibizione era un ribaltamento dei vecchi schemi della danza classica.
La frequentazione del ballerino di locali gay non sfuggì al KGB, che lo aveva osservato per tutto il tempo della sua permanenza a Parigi. La compagnia si trovava all’aeroporto Le Bourget, pronta a prendere il volo per Londra quando a Nureev venne comunicato che sarebbe stato stato immediatamente rimpatriato per un’importante esibizione al Cremlino. Il resto del gruppo invece avrebbe continuato le esibizioni a Londra. L’intera compagnia rimase sconvolta dalla notizia e tentò di ribellarsi alla decisione di rispedire Nureev in patria. Rudol’f non ci mise molto a realizzare che si trovava a un punto di non ritorno. Se fosse tornato gli sarebbe stato negato per sempre il diritto di espatrio, se non fosse tornato non avrebbe più rivisto la famiglia e sarebbe stato accusato di alto tradimento. Quelle in aeroporto sono le ore più terribili della sua esistenza. Sente i pensieri disperdersi nell’aria e il corpo trema violentemente mentre gli uomini del KGB lo sovrastano togliendo quel poco di fiato che gli rimaneva. Decise infine di rimanere a Parigi, si sottrasse all’ultimo momento al KGB, urlando quasi in lacrime che voleva restare. Scappò difeso dalla polizia francese a cui poi fece poi richiesta d’asilo. Non poteva danzare per il Cremlino, per una forma di danza vuota e assoggettata al regime. Scegliere di tornare significava scegliere di morire, poiché non avrebbe danzato per esprimere sé stesso ma per celebrare la potenza dell’Unione Sovietica. Il prezzo da pagare era troppo alto.
La sua decisione non sconvolgerà solo la sua vita, ma anche quella dei suoi affetti in patria. A una delle più sue care amiche, Tamara Zakrževskaja, ritirarono il diploma di laurea. In una lettera a lei indirizzata uno dei suoi professori le scrisse: “Come può lei insegnare se non è nemmeno in grado di riconoscere un nemico della Patria?”. Tentarono persino di costringere la madre a denunciarlo pubblicamente, ma la donna si oppone.
Nureev aveva capito che ci sono due momenti nella vita in cui si nasce: uno è quello in cui veniamo messi al mondo dalla carne in uno spasmo pieno di dolore; l’altro è quello in cui nasciamo come individui, e anche questa nascita è carica di agonia. Spingiamo noi stessi verso l’esterno, distruggendo buona parte di quella membrana che fino a quel momento ci aveva permesso di vivere e di nutrirci. Alcuni, pur di non sentire dolore, si rifiutano di nascere, adagiandosi in un sonno perenne. Alcuni soffrono a lungo perché non riescono a dare la spinta finale che li porterà alla loro forma definitiva. Nureev aveva deciso di infrangere la membrana che ormai gli si stava attaccando sempre più alla pelle e che rischiava di farlo soffocare. la sua era un’anima che traeva la vita dalla percussione della danza, per lui non esisteva altro.
Accusato di alto tradimento in patria, si stabilisce definitivamente a Parigi, dove compra il suo primo appartamento. Nel 1962 conobbe la ballerina inglese Margot Fonteyn. La donna rifiutò diverse volte di danzare con lui. Fra i due c’erano venti anni di differenza – lei è sulla quarantina, lui sulla ventina – e temeva che lo scarto generazionale potesse creare problemi. La verità era che Margot aveva chiuso da tempo il suo cuore. Imprigionata in un matrimonio infelice con un uomo che la maltrattava e la tradiva continuamente, aveva smesso di fidarsi degli altri. Nureev riuscì infine a farla cedere e fu in quel momento che si fusero in un corpo solo. Fonteyn si fidava ciecamente di Nureev. Nureev l’adorava follemente. Insieme calcarono i palchi del mondo intero, apportando alla danza interpretazioni fino ad allora mai viste. Diventarono indivisibili al punto da non condividere solamente il palco. Arrivarono persino a farsi arrestare assieme durante una loro tournée a San Francisco. Arrestati a una festa per disturbo della quiete pubblica e possesso di marijuana, vennero rilasciati su cauzione e potendo lasciare l’America incensurati.
Nel 1968, a entrare in scena nella vita del ballerino è l’altro suo più grande amore, il ballerino danese Erik Bruhn. Lo conobbe durante una delle sue tournée in Danimarca e l’iniziale stima reciproca tra i due mutò presto in un profondo sentimento d’amore. Il loro sarà un rapporto burrascoso, erano entrambi ballerini di fama mondiale e spesso il successo di uno dei due poteva tramutarsi nella disfatta dell’altro. Arrivarono al punto in cui la loro fama divenne così grande da dover scegliere tra la danza o il partner. Nureev scelse la danza. Per lui, scegliere qualcuno o qualcosa che ami, voleva dire dedicargli tutto il tuo tempo. Era la danza il suo vero amore, e così si separò da Erik. I due decisero di tornare assieme quando Erik si ammalò di tumore. Volevano passare gli ultimi istanti assieme, e fu così fino alla morte di Bruhn, che avvenne nel 1986.
Nureev non perse solo il compagno, ma anche l’amata Margot. La donna voleva divorziare dal marito, ma proprio mentre attendeva insieme a Nureev il consenso per il divorzio, il marito fu vittima di un attentato – era un diplomatico panamese – . Venne raggiunto da una pallottola che lo paralizzò, rendendolo incapace di badare a se stesso. Margot decise di assistere il marito. Per farlo dovette però rinunciare a Rudol’f.
Lontano da Margot, Nureev venne raggiunto dalla notizia che il neopresidente Gorbačëv gli aveva concesso un permesso per rivedere la madre. Nureev atterrò sulla terra natia accolto e acclamato dal popolo russo. Il regime non era riuscito a soffocare l’amore che i russi provavano per lui. Si diresse alla casa della madre, ma l’incontro non fu facile per lui. Credeva che la madre, ormai molto anziana, non fosse più in grado di riconoscerlo. Le sorelle provarono a chiederle chi fosse l’uomo che le era venute a trovare. La donna sorrise e risponse “Rudik”. Lo aveva riconosciuto. Come avrebbe potuto non riconoscerlo più, lo aveva aspettato e desiderato per anni, disegnando nella sua mente il suo ritorno.
Nemmeno la sua prima insegnante di danza, Anna Ivanova Udal’cova, lo aveva dimenticato. Aveva raggiunto la veneranda età di cento anni. Quando vide Nureev oltrepassare la porta della sua stanza iniziò a chiamarlo a gran voce. Lo chiamava moj mal’čik e lo strinse a sé per tutto il tempo della visita. Nureev la stringeva anche lui e continuava a baciarle le guance mentre la donna continuava a ripetergli il suo nome.
Nureev sembrava aver ritrovato un po’ di serenità. Non era così. Venne a sapere che Fonteyn si era ammalata di cancro. La sua Margot stava morendo. Andò a trovarla in ospedale subito dopo un’operazione in cui le avevano amputato la gamba. Nureev provò a scherzare, dicendole che con una sola gamba poteva comunque saltare. Per quanto tentarono di sorridersi, però, avevano entrambi il cuore spezzato. Sapevano bene che quello era il momento della separazione definitiva. Margot non sopravvisse e insieme a lei si portò via anche il fuoco sacro della danza. Come poteva danzare senza lei? Senza la donna con cui diventava un tutt’uno sul palco. S’erano finite per fondersi anche le loro anime e ora lei aveva portato via con sé l’anima di entrambi. Era disperato. Chiamava gli amici nel cuore della notte piangendo e urlando che non aveva senso andare avanti senza lei. L’amava e ora era completamente perso. Non si riprese più dopo la sua morte.
Continuò a lavorare come coreografo, ma non fu più in grado di ballare. Aveva contratto l’AIDS e la malattia lo aveva debilitato al punto da rendergli difficile persino camminare. Morì nel 1992 a Parigi. La sua bara venne accompagnata verso il cimitero russo sulle note della Giselle. Io lo seguivo, mi sentivo come trascinata da quel ribollire di vita che lo aveva fatto danzare fino alla morte.
Sembrerà un esagerazione, ma in quel momento nella sala stavamo piangendo tutti. Ogni tanto ci guardavamo, quasi a consolarci l’uno con l’altro. Né io né Claudia fummo in grado di dire una sola parola una volta uscite dalla sala. Andammo silenziosamente verso la fermata per prendere l’autobus che ci avrebbe portato in una zona distante dal centro di Mosca. Avevamo bisogno di un po’ di tempo per fare ordine nel caos delle emozioni che ci avevano invase.
Improvvisamente il mondo attorno mi sembrava insopportabile. Quanta vita si butta in pasto alle nostre nevrosi? Trascinavamo con noi una carcassa che credeva di essere ancora viva e che imputridiva sempre più mentre cercava di adempiere ai suoi doveri sociali. Non siamo noi. Siamo il pensiero di una vita che ancora non è nata. Pensavo a Nureev e a come la sua esistenza fosse stata un inno sacro alla vita. Non si era spento, il mondo intero era impregnato dell’essenza della sua carne irrequieta. La sua immagine si specchia e si moltiplica nei vari angoli del mondo innescando in chi lo osserva una sete di vita insaziabile. La fedeltà che aveva dimostrato a se stesso lo aveva portato alla realizzazione massima a cui un uomo può e deve aspirare. Era mosso da uno spirito che è in molti, ma parla a pochi.
Fu lui stesso a dire: “La danza è tutta la mia vita. Esiste in me una predestinazione, uno spirito che non tutti hanno. Devo portare fino in fondo questo destino: intrapresa questa via non si può più tornare indietro. È la mia condanna, forse, ma anche la mia felicità. Se mi chiedessero quando smetterò di danzare, risponderei quando smetterò di vivere”.