Balcani, teatro e politica: una chiacchierata con Jeton Neziraj

Tra gli ospiti più attesi di quest’edizione del POLIS Festival, il drammaturgo kosovaro Jeton Neziraj ha già all’attivo una carriera prolifica nei teatri di tutta Europa. Noto per il taglio irriverente, farsesco e fortemente politico dei suoi testi, Neziraj tiene in scacco il pubblico e l’establishment culturale interrogandoli sulla propria responsabilità e sui propri pregiudizi, e lo fa con una sapiente commistione di riferimenti letterari, testuali e metateatrali, vivacizzati da una forte impronta balcanica.

 

Al POLIS è stato portato in scena lo spettacolo Burrnesha, che partendo dall’esperienza di una vergine giurata albanese trapiantata a Londra intavola una riflessione sui ruoli di genere, sulla libertà individuale e sulle loro manifestazioni in diversi contesti culturali. Dopo lo spettacolo, abbiamo avuto modo di scambiare quattro chiacchiere con Jeton, e oltre che di Burrnesha abbiamo parlato anche del suo recente The Handke Project, dove un gruppo di drammaturghi e attori da tutta Europa indaga il tema della responsabilità etica e politica dell’arte.

 

 

 

Partiamo da The Handke Project, rappresentato in Italia durante la scorsa edizione del Mittelfest di Cividale, dove ho avuto occasione di vederlo. In realtà questa prima domanda riguarda più il contesto: come si inserisce Handke nel dibattito pubblico nei Balcani, sia prima che dopo il Nobel, e com’è nata l’idea dello spettacolo?

 

È iniziato tutto dopo il Nobel, in realtà. Handke era già noto per le sue dichiarazioni controverse sulle guerre in Jugoslavia, ma ovviamente un premio di quel calibro ha reso queste dichiarazioni molto più accessibili al pubblico. Fino a prima del Nobel era più conosciuto come un autore bravo e famoso di lingua tedesca, ma la scelta di conferirgli il Nobel ha significato a livello simbolico una legittimazione da parte di un’autorità credibile e importante come l’Accademia di Svezia. Negli anni Novanta ha visitato la Bosnia e il Kosovo supportando direttamente Milošević, poi è tornato più volte in Kosovo dopo la guerra, recandosi spesso nel villaggio serbo di Velika Hoča per sostenere la popolazione serba locale. Le persone sapevano già delle sue opinioni politiche, ma con il Nobel si è fatto più forte anche il dissenso.

 

Se paragoniamo i diversi modi in cui viene recepito in Europa, direi che nei Balcani le sue opinioni politiche sono molto più conosciute della sua opera, mentre in Europa occidentale (qui mi riferisco più all’area germanofona) si sa molto della sua letteratura e meno del suo lato oscuro, se così vogliamo chiamarlo. Ovviamente se non si ha dimestichezza con il contesto delle guerre jugoslave è facile avere una visione fuorviante o parziale dell’opera di Handke, non riuscire a capire cosa davvero sia successo o perché i suoi scritti abbiano delle forti criticità, perché dopotutto è un ottimo autore e con la retorica ci sa fare.

 

Per quanto presente nella vita politica dei Balcani, però, il mio interesse per Handke è nato nel 2019-2020, quando stavo scrivendo The Return of Karl May, uno spettacolo commissionato dalla Volksbühne. La pièce è una parodia dell’opera di Karl May, questo romanziere tedesco che ha scritto numerosi romanzi d’avventura ambientati nel vecchio West e nei Balcani, e con il pretesto di un viaggio attraverso l’Europa, che ricalca quello dei rifugiati, gli attori svelano le ipocrisie e i pregiudizi ancora presenti nel continente. Ci sono molti riferimenti a personaggi reali e alla cultura pop, c’è anche una scena in cui i protagonisti incontrano Slavoj Žižek, ma in un’altra viene menzionato anche Handke. Ecco, lì ho capito che meritava più attenzione per la natura di alcune sue affermazioni, così ho scelto di proporre un copione in cui mi concentro unicamente su di lui.

 

In The Handke Project parliamo direttamente di Handke, certo, ma è un pretesto per parlare dei limiti o dei confini tra letteratura, propaganda e responsabilità etica nei confronti del pubblico. Di come rimanere credibili come artisti e fedeli a noi stessi nella nostra opera, ma al tempo stesso avere una posizione responsabile anche nei confronti dello spettatore. Qual è, quindi, quel confine che alcuni artisti non valicano e altri, come Handke, sì? In alcuni dei suoi lavori, quelli sull’ex Jugoslavia, questo confine è stato attraversato. E allora finisci per chiederti: cos’è che separa la letteratura dalla propaganda? Penso sia il momento in cui inizi a beffarti delle vittime e a prendere le parti dei colpevoli.

 

 

Quando gli avevo chiesto qualche curiosità sullo spettacolo, Klaus Martini mi aveva raccontato che vi eravate riuniti per discutere del copione tutti insieme. Questa differenza di punti di vista in base alla nazionalità degli attori ha contribuito allo sviluppo del dibattito? Ho saputo anche che un’attrice serba si è ritirata dal progetto.

 

Non una ma tre, in realtà! Comunque, l’idea era quella di cercare di scrivere il copione con più libertà possibile, perché volevamo riflettere la compresenza di voci diverse. Volevamo sentire opinioni contrastanti sul modo in cui ci si può affacciare alla questione.

 


Quindi si è inizialmente sviluppato come un dialogo tra voi?

 

No, non proprio. Avevamo un modello iniziale molto semplice, una quindicina di pagine, poi ci siamo incontrati a Prishtina e abbiamo iniziato a parlare con gli attori. Abbiamo fatto delle chiamate zoom con Biljana Srbljanović e Alida Bremer in cui leggevamo alcuni passaggi di questo libro di Handke, Un viaggio d’inverno ovvero giustizia per la Serbia, abbiamo preso qualche spunto da articoli e video e con questo percorso di ricerca e analisi ho scritto il copione. Parte dell’ispirazione viene da quelle conversazioni, ma direi che metà è finzione, mentre l’altra metà si basa su affermazioni reali di Handke e su commenti di altre persone su di lui. Quindi sì, tra ricerche, colloqui e fonti testuali il risultato finale è molto eterogeneo, ma quello che ho cercato di fare è stato servirmi del suo stile e del suo approccio retorico, ad esempio quello di Insulti al pubblico. Non per imitarlo, ma per riflettere sulle guerre in Jugoslavia, per contrattaccare ai suoi commenti con i suoi stessi mezzi.

 

A volte nel teatro cerchiamo di lasciare aperte le questioni, di lasciare gli spettatori con una domanda, ma stavolta la nostra posizione era netta. Non volevamo che il pubblico avesse la possibilità di decidere da che parte schierarsi, noi eravamo chiaramente contrari alle sue dichiarazioni. Ma al tempo stesso volevamo avere attori dalla Serbia. Uno di loro dopo la prima settimana ha abbandonato il progetto perché in Serbia Handke è un argomento molto delicato, sapeva che ci saremmo esibiti anche lì e ha scelto di tirarsi indietro, e così è stato anche per altri due. E come già detto, abbiamo anche collaborato con la drammaturga serba Biljana Srbljanović.

 

 

Avete messo in scena lo spettacolo in varie nazioni, la reazione di pubblico e critica qual è stata? C’è stata un’accoglienza differente in base al contesto in cui vi siete esibiti?

 

Siamo stati in Germania ma non in Austria, poi ci siamo esibiti in Italia, in Serbia, in Macedonia e in Bosnia. Ora andremo in Slovenia, Croazia, poi di nuovo in Italia e forse Repubblica Ceca e Slovacchia. Una reazione diversa? Non saprei, a parte la Serbia, nei Balcani, anche a Skopje e a Tirana, lo spettacolo è stato accolto con entusiasmo, e più o meno ce l’aspettavamo. A Tirana è stato particolarmente bello perché nel pubblico c’era anche un membro dell’Accademia di Svezia, uno dei diciotto che si erano dimessi dopo l’assegnazione del Nobel a Handke. Ha scritto un bellissimo articolo per un quotidiano svedese sullo spettacolo e sulla reazione del pubblico albanese.

 

Forse la replica più importante è stata quella a Sarajevo, lì le persone capivano appieno tutti i riferimenti e c’è stata una riflessione comunitaria su tutto. Nel copione abbiamo usato degli elementi culturali specifici legati alla città, come il costume da sciatrice di una delle attrici che rimanda alle Olimpiadi Invernali di Sarajevo del 1984, ma anche altro. Elementi che spesso le giovani generazioni in Kosovo non conoscono, per loro è semplicemente un ragazzino che scia, o anche in Germania non avevano idea di chi fosse Vučko. Quando Blerta [Neziraj, regista teatrale e moglie di Jeton, NdA] si stava occupando della regia sapeva già che ci sarebbero stati dei riferimenti che non tutti avrebbero colto, ma volevamo che il copione fosse comprensibile su più livelli, indipendentemente dal contesto in cui ci fossimo esibiti. Quindi sì, anche se abbiamo cercato di dare un livello di lettura universalmente valido, ci sono alcuni particolari che vengono recepiti diversamente da un pubblico più informato, che hanno un valore aggiunto o un significato più profondo per chi conosce il contesto della guerra in Bosnia.

 

 

Hai parlato di Handke come sintomo di un’ipocrisia europea fondata sulla pretesa di superiorità intellettuale, che è un atteggiamento che si nota molto quando in Europa occidentale si parla dei Balcani o del vecchio “blocco Est”. Come dicevi ieri sera all’incontro con Erson Zymberi e Anna Maria Monteverdi, è una forma molto insidiosa di colonialismo.

 

Penso che l’Europa abbia molte sfaccettature. È anche difficile parlare del concetto stesso di Europa, si tende spesso a generalizzare o darne un’immagine omogenea, ma se da un lato ci sono molti aspetti critici, dall’altro ci sono anche molte persone apertamente antifasciste o che si attivano per accogliere i rifugiati. Per noi era importante perché personaggi pubblici del calibro di Handke hanno visibilità, autorevolezza e credibilità intellettuale, sono rispettati e hanno accesso ai media e a un pubblico molto ampio. I suoi spettacoli vengono messi in scena in moltissimi teatri di area tedesca, per questo penso che The Handke Project abbia una sua rilevanza, non perché offra un’altra prospettiva ma perché mostra semplicemente l’altro lato di Handke, che poi è anche l’altro lato dell’Europa. Di nuovo, queste diverse sfaccettature. C’è sempre la tendenza a ignorare queste criticità dell’Europa che però hanno delle conseguenze concrete, e se non vengono riconosciute e portate alla luce sarà il loro prodotto a essere visibile davanti ai nostri occhi. Vediamo i risultati nell’ascesa di xenofobia, razzismo e fascismo, come nell’Ungheria di Orbán, e dobbiamo avere la possibilità di parlarne apertamente.

 

 

Pensi ci sia uno svilimento di molte istanze dell’Europa centro-orientale con il cambiamento dei paradigmi culturali? In Burrnesha evidenzi come da un lato la società dello spettacolo porti a uno sfruttamento e a un impoverimento delle storie personali e delle specificità culturali, e dall’altro il mondo intellettuale e accademico ricada nella stessa esotizzazione del diverso, sebbene con modalità differenti.

 

Questo aspetto coloniale esiste ed è parte integrante della coscienza culturale dell’Europa. Ho scritto il testo di Burrnesha perché mi era stato commissionato da una compagnia svizzera, l’interesse che ho per il fenomeno delle vergini giurate si è sviluppato proprio dalle distorsioni e dai fraintendimenti del mondo accademico, o di quelle prospettive neocoloniali incentrate sullo showbiz che non tengono conto del contesto d’origine. Persino in Albania la società ha iniziato a sviluppare una curiosità per le burrnesha soltanto dopo l’interesse mediatico dell’Occidente. Ed è così che ho scelto di invertire la rotta, di immaginare cosa succederebbe se invece di invitare giornalisti, antropologie reporter togliessimo una di queste vergini giurate dal loro contesto e la spedissimo in una realtà completamente diversa come Londra.

 

La tendenza all’esotizzazione c’è sempre, conscia o inconscia, è lì, e faccio di nuovo l’esempio di Karl May: i suoi romanzi sono stati adattati per il cinema decine di volte e ha lasciato il segno nell’immaginario europeo senza aver nemmeno mai visitato i posti che descrive nei suoi libri. Questo modo di porsi purtroppo esiste, e purtroppo anche per molti artisti seguire i preconcetti a cui si è abituati è un processo quasi spontaneo. Per rompere questo circolo vizioso è necessario conoscere l’altro, toccare con mano altre realtà, invitare produzioni estere e visitare altri Paesi, perché non conoscere direttamente le altre realtà è la base su cui si creano gli stereotipi e la paura dell’altro. C’è questo autore franco-libanese, Amin Maalouf, che dice che è necessaria una conoscenza intima delle altre culture, e la letteratura è uno dei modi per rendere questa conoscenza e questa comprensione possibili.

 

 

Come vi siete mossi per le scelte di regia e per la messa in scena? C’è molta insistenza sugli elementi farseschi, sia in Handke che in Burrnesha.

 

Io mi occupo solo di sceneggiatura, non di regia. In Burrnesha è stato il regista, Erson, a curare il concept e la messa in scena. L’idea era quella di enfatizzare la dimensione quasi televisiva della vicenda, che abbiamo poi scelto di rappresentare come uno show farsesco. Il pubblico veniva disposto intorno al palco, come in uno studio televisivo, per sottolineare come alcune soggettività vengano viste quasi come degli animali esotici. È un meta-commento sulla società dello spettacolo e sull’incontro-scontro tra culture diverse.

 

Quanto a The Handke Project, invece, la regista è mia moglie e lo spettacolo è prodotto dalla compagnia di cui sono a capo [ride], quindi ovviamente sono coinvolto nel processo decisionale. Però spettacoli come Burrnesha sono più aperti all’interpretazione anche nella messa in scena. Ad esempio la produzione svizzera, a cui ho assistito, era più poetica e meno graffiante nei toni. In Handke, invece, è necessario essere più netti perché le scene sono scritte in forma post-drammatica, se così la vogliamo chiamare, un mosaico senza collegamenti diretti, e questo influenza di molto le scelte di regia. Puoi fare praticamente quello che vuoi, anche mettere una piscina gonfiabile sul palco. Ma alla fine è comunque necessaria una certa precisione, che viene anche determinata dal testo. In Handke serviva una schiettezza politica, mentre il tono di Burrnesha è più delicato.

 

 

In Burrnesha la recitazione mi è sembrata molto più coinvolgente, complice la diversa disposizione del pubblico rispetto alla scena. Anche la critica si è interrogata attivamente sul proprio coinvolgimento in questi processi di esotizzazione o interpretazione approssimativa di culture diverse, o il dibattito è rimasto sul palcoscenico?

 

Quanto a Burrnesha non saprei rispondere, perché è la prima volta che lo mettiamo in scena fuori da Kosovo e Albania. Con Handke invece abbiamo viaggiato molto per via della polemica che lo circonda, perciò ti posso dire che per Handke sì, il dibattito c’è e non si limita a lui come autore e come persona, ma tocca anche il modo in cui l’Occidente ha visto la guerra nei Balcani. Quando chiedevi agli europei occidentali qualcosa sulla guerra non sapevano mai cosa rispondere, perché per loro la Jugoslavia era un buco nero pieno di tribù barbare che si combattono tra loro. L’interesse è sorto soltanto dopo, con l’arrivo dei rifugiati, ma perché ci si chiedeva cosa farne. È quello che succede nel caso di tutta quella curiosità che nasce dopo lo scoppio di una guerra, che è uno dei problemi principali della società e delle istituzioni europee. Adesso il tema caldo è l’Ucraina, ma questa curiosità verso l’altro e la sua cultura dev’esserci sempre e a prescindere dal contesto, non soltanto in tempi di crisi.

 

 

È curioso come, in un certo senso, nella tua produzione sia proprio il linguaggio teatrale a rovesciare il linguaggio del discorso dominante.  Sia che si parli delle istituzioni e dei circoli intellettuali, come in The Handke Project, o dei media e dell’intellighenzia come in Burrnesha, quasi come la performance stessa fosse parte integrante del sistema accademico o culturale, e il discorso realmente politico e intellettuale fosse possibile solo nella sperimentazione artistica.

 

Penso dipenda da come ognuno vede il teatro, da che tipo di teatro si voglia fare, dai propri interessi e obiettivi. Per me è una perdita di tempo continuare a ripetere e tirar fuori argomenti triti e ritriti. Ogni teatro può farlo, ma venendo dal Kosovo, dove le risorse finanziarie per le produzioni sono particolarmente limitate, sarebbe stupido sprecare i finanziamenti in spettacoli futili. Perché produrre un’altra commedia, perché produrre qualcosa che punti solo a intrattenere?

 

Vedo il teatro come un cacciatore a cui è rimasto un solo proiettile e che per non farsi uccidere deve mirare bene. Potrei sbagliarmi, certo, e nel teatro politico non si può avere sempre ragione, ma almeno si cerca di comunicare qualcosa, anche di disturbare. E a me va bene disturbare i nazionalisti, gli omofobi o i razzisti, è del tutto legittimo, perché il teatro non può mettere tutti d’accordo. Se la gente viene a teatro e tutti escono soddisfatti allora non lo stai facendo bene.

 

E per quanto riguarda l’ambiente accademico, sì, anche quella è diventata quasi una performance a sé, sono degli schemi in cui bisogna incasellarsi per non restarne fuori. Ma se tutto è una performance, allora è lì che sta il potere del teatro, è un’arte importante e ancora viva, che può essere usata per dire qualcosa di giusto.

 

 

Un’ultima domanda: hai altri progetti su cui stai lavorando al momento?

 

Al momento stiamo mettendo insieme un progetto intitolato Negotiating Peace. Stiamo esaminando vari trattati di pace e negoziazioni, sia quelle entrate in vigore che quelle fallite: gli accordi di Dayton della fine della guerra in Bosnia, gli accordi di Oslo, le proposte sugli accordi tra Serbia e Kosovo… Vogliamo produrre uno spettacolo che dia un’idea di quello che succede in quei contesti, chi è che sta negoziando, qual è il ruolo degli emissari di pace europei e americani, a nome di chi agiscono, quanto ne sanno delle realtà in cui stanno agendo, se hanno davvero a cuore gli interessi dei Paesi coinvolti o se importi soltanto la ratifica.

 

Come per The Handke Project, stiamo collaborando con vari teatri e festival da tutta Europa: Mittelfest e il Teatro della Pergola in Italia, Euro Szene in Germania, alcuni teatri in Repubblica Ceca, Estonia e Ucraina, e alcuni da altre nazioni. Debutteremo a Prishtina il 16 ottobre, poi inizierà il tour negli altri Paesi.