Bottigliette di Sophie van Llewyn: rimpicciolire la vita, rimpicciolire la patria

La mia lista dei desideri oggi, Italia, 2022:


  • Un biglietto di sola andata per New York.
  • Quella borsetta in vetrina che brillava alla luce del sole.
  • Un appartamento in centro città. o La fine della crisi climatica e delle guerre del mio tempo.
  • Un gatto.
  • Un lavoro che mi rispecchi (prima della borsetta).

Lista dei desideri di Alina a Babbo Gelo, Romania, anni ‘70:


  • Un paio di Jean Levi’s.
  • Un rossetto, come quello che si mette l’insegnante di pianoforte, di un elegante tono bordeaux.
  • Meglio ancora dei primi due, un paio di stivali nuovi. La suola di quelli neri è talmente consumata che quando piove scivolo – sono caduta due volte la settimana scorsa. Non oso immaginare cosa succederà con la neve.
  • Ma meglio ancora, un fornello elettrico portatile da usare in camera. Non ne posso più di cucinare ogni cosa utilizzando il riscaldatore ad immersione. 
  • Un aumento, così potrò comprarmi tutte queste cose e mandare un po’ di soldi a Liviu. Perché gli stipendi degli insegnanti sono così bassi?
  • Il mio fidanzato. Aiutalo a finire l’università quest’anno, non il prossimo. Questo mese. Oggi.
  • Ti prego, fai che mamma cambi idea e mi dia una mano con gli studi in modo che io possa diventare una traduttrice invece di dovermi rapportare ogni singolo giorno per il resto della mia vita con dei ragazzini di otto anni.
  • Ti prego, riporta indietro il tempo in cui ho presentato Liviu a mamma. Ti prego, non permetterle di sbattermi fuori casa.

Elencati vi sono solo alcuni dei desideri, o per meglio dire suppliche di Alina, la protagonista di Bottigliette (Bottled Goods) dell’autrice Sophie van Llewyn, edito Keller 2020 in traduzione dall’inglese di Elvira Grassi. Inserito nella Longlist al Women’s Prize for Fiction 2019, al Republic of Consciousness Prize 2019 e al People’s Book Prize 2018, il romanzo lascia il segno per l’architettura narrativa frammentata ma lineare, per lo stile diaristico tra realismo e magia, per la voce umana che ancora una volta narra che cosa vuol dire essere in mezzo alla Storia. 


Nella lista a Babbo Gelo abbiamo tutta una vita della nostra protagonista, dal dettaglio più luminoso al lato più oscuro. Siamo nella Romania degli anni ’70, Alina ha vent’anni e vive in pieno regime comunista, in piena epoca Ceaușescu. Quell’uomo che da umili origini contadine arriva ai vertici del potere romeno, prima avvicinandosi al leader romeno Gheorghiu-Dej, poi diventando primo segretario delPartito Comunista nel 1965, affiancato da Elena Petrescu, sua compagna di vita. Le vicende storiche iniziano ad assumere caratteri sempre più cupi, quando da una relativa apertura all’Occidente e una promettente crescita economica lo Stato precipita in un autoritarismo sempre più rigido e in una violenza contro ogni forma di dissenso e minoranza etnica.


La lista della nostra Alina si colloca proprio in quegli anni ’70, anni in cui la politica economica autarchica di Ceaușescu, ora autoproclamatosi “condottiero”, affama la Romania intera in nome di un socialismo reale che proietta già l’ombra del suo fallimento. In un’intervista alla scrittrice lei parla di un’idea di comunismo in Romania come di una creatura mitica, odiata e rimpianta con nostalgia in uguale misura, e che è tutt’ora parte delle conversazioni tra generazioni richiamando memorie, storie e sofferenze.


Lo stile a tratti ironico e giocoso compone un mosaico in cui le vicende dei protagonisti sembrano pervenute da annotazioni su vecchi bigliettini ingialliti, cartoline o trafiletti di giornale. Alina e Liviu (sì, quello che deve assolutamente finire l’università, sì, l’amore che ha fatto cacciare di casa Alina da sua madre) sono una coppia di giovani insegnanti che si arrabattano per vivere in un paese minato dal regime, che non ammette tentennamenti o sfumature di nessun tipo. Sullo sfondo dell’esistenza già gravemente precaria di questi due sposini, alcuni avvenimenti si profilano con la potenza di ordigni pronti a esplodere: il fratello di Liviu che lascia il paese in fuga verso il tanto agognato Ovest, e una rivista proibita a scuola che Alina nota, e non denuncia. Il tritacarne comunista è avviato, questi episodi segnano l’inizio della pressione e la tortura che il regime innesca nei confronti della coppia che ormai è decisamente uscita dai sottili bordi della rispettabilità.


Così si apre il capitolo La caccia:


Ogni martedì pomeriggio, l’uomo in completo grigio si materializza emergendo dalle ombre proiettate dal palazzo di Alina, dal fumo emanato dalla propria sigaretta. Solleva il cappello in segno di saluto e Alina, girandosi dall’altra parte per sottrarsi alla vista della cicatrice che gli taglia in due il sopracciglio, lo invita frettolosamente dentro. Non vuole dargli il tempo di parlare, di srotolare quelle temute parole da qualche oscuro recesso della mente: «Compagna, mi segua al quatier generale». 


Da lotta per la sopravvivenza, la battaglia di Alina e Liviu si tramuta in drammatica fuga dal Paese, convertendo in moneta utile tutto quello che possiedono, sviando i continui controlli, tremando per la paura della cattura e soffrendo le ferite che il presente lascia su di loro, sul loro amore, sulla loro relazione.


È doveroso, parlando di letteratura rumena, richiamare la luminosa testimonianza della scrittrice Herta Müller, vincitrice del premio Nobel per la letteratura 2009 e grande narratrice degli orrori del comunismo rumeno. Anche la sua letteratura ci parla di sofferenza e persecuzione e anche la sua è una storia di emigrazione in terra tedesca. Nel suo Il paese delle prugne verdi racconta la paura costante del regime, il terrore della polizia e della caccia che sembra impregnare pensieri e oggetti allo stesso modo:


Poiché avevamo paura, Edgar, Kurt, Georg ed io stavamo insieme ogni giorno. Stavamo seduti al tavolo, ma la paura rimaneva isolata in ogni testa, così come ce la portavamo dietro quando ci incontravamo. Ridevamo molto, per nasconderla gli uni agli altri. Perché la paura svicola. Quando si domina il proprio volto, sguscia fuori nella voce. Se riesci a tenere in pugno il volto e la voce come se fossero un pezzo inanimato, sfugge persino dalle dita. Trapassa la pelle. Gira libera, la si vede negli oggetti che stanno nelle vicinanze.


La realtà che circonda i protagonisti di Bottigliette, invece, è a tratti cupa, a tratti onirica, alle volte persino leggendaria. Come la casa di zia Theresa, che tiene bicchieri e tazze capovolte per paura dell’arrivo dello Strigoi, un demone del folklore romeno, lo spirito dei morti o come La Santa del Venerdì, che consegna a Alina una bottiglietta di pozione capace di rimpicciolire la madre e impedirle così di condannare la coppia all’arresto. La magia è senza dubbio il terzo protagonista di questo romanzo, ed è la sola che, secondo Alina, può salvare lei e Liviu, “rimpicciolendo”, perché no, la realtà così da renderla innocua, lontana, silenziosa.


La dimensione magica, ampiamente utilizzata all’interno del romanzo, assume una funzione che è ben distante dall’essere un mero mezzo di evasione dalla realtà: è una lente che permette di vedere oltre, una chiave di lettura fondamentale per interpretare la realtà che circonda Alina e Liviu e arrivare all’ossatura della società romena. Il realismo magico è la dimensione che legge la realtà in profondità, scandaglia più livelli esistenziali, è un “microcosmo privato” trasgredisce dal rigido e unidimensionale realismo socialista che è la sola voce ufficiale degli anni comunisti. Se c’è una verità, sola e inconfutabile in questa meravigliosa e a tratti bizzarra storia che si srotola pagina per pagina, è che la magia, le formule, gli incantesimi, i demoni e le sante, non potrebbero nulla senza il coraggio di esistere che Liviu, ma soprattutto Alina dimostrano.


Una coppia di eroi che pure braccati corrono verso la luce, fino a non avere più niente al di fuori di loro stessi, al di fuori della loro anima, seppur a brandelli. La luce è al di là del confine, il confine che è trappola e promessa:


Recito tutte le preghiere che ricordo, imploro i santi e la Vergine Maria di avere pietà. Non voglio che mia madre muoia. Non voglio essere la sua assassina. Mi faccio il segno della croce, mi inginocchio, le mani giunte. Le mie labbra ardono dei ferventi sussurri. Ti prego Dio, aiutaci a passare il confine, ti prego fai che smetta di piovere, ti prego fammi dire a zia Theresa dove sta mia madre, ti prego non farla morire. Padre nostro, che sia nei cieli, sia santificato il tuo nome.


E i documenti, la carta che dice chi sei, che testimonia che esisti, è tutto quello che desideri per dimostrare che puoi avere una vita al di fuori di questo mondo, al di fuori della tua patria infernale:


La porta si apre. Fa il suo ingresso un uomo alto e con i capelli biondi cortissimi. Ha in mano un passaporto e un fascio di fogli. Salto su dalla sedia per andargli incontro. «Grazie» gli dico, allungando la mano per prendere il passaporto. Lui lo ritrae. «Che fa?» […] Getta le carte sul tavolo, scorre i miei documenti. «Ha un visto per la Repubblica federale di Germania» dice, indicandolo. «È quasi scaduto». Cerco di concentrarmi ma non riesco. «Perché tutta questa fretta di partire adesso?» La mia mente scandaglia le erbacce della verità. Non posso strapparle via dalla mia testa e porgerle all’uomo.


La libertà è senza dubbio la prima e l’ultima dedica del romanzo, che ci proietta verso la rivoluzione del 1989, la caduta di un dittatore. C’è spazio per la rinascita, ma come risaputo, ogni rinascita ha il sapore dell’abbandono, della nostalgia e della disillusione. L’Alina ormai libera, confidandosi al lettore, si definisce: come “un alberello romeno deformato dalle forze dell’Occidente” che non ha più bisogno delle proprie radici. Il romanzo di Van Llewyn non emerge certamente deformato da alcuna forza esterna, ma si aggiunge luminoso a quella costellazione di opere che hanno tutto il diritto e la tenacia di essere patrimonio mondiale, tanto radicato in patria, quanto universalmente arricchente.

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