La melodia del dolore: Filipenko e le “croci” bielorusse

“La Bielorussia sarà anche un paese amico, ma resta un paese straniero”.

 

 

In Croci rosse (Edizioni e/o, trad. a cura di Claudia Zonghetti, 2021) di frasi emblematiche ce ne sono moltissime, ma questa sembra essere una delle più significative, che forse meglio riassume l’essenza del romanzo stesso, strettamente legata alla situazione bielorussa sia contemporanea che più largamente post seconda guerra mondiale e che quindi, per forza di cose, abbraccia tutto ciò che era l’apparato sovietico. Ma andiamo per gradi: senza cadere in lunghi monologhi biografici, l’autore del libro, Saša Filipenko, è un giornalista bielorusso di formazione umanistica ricevuta in Russia, a San Pietroburgo. La lingua di cui si serve nei suoi libri è il russo, scelta senza dubbio influenzata da una situazione al giorno d’oggi tutt’altro che semplice per la lingua bielorussa, usata sempre meno nel quotidiano, ma che potrebbe già introdurci uno dei complicati rapporti socio-culturali di cui si fa menzione nel suo romanzo: la forte ed inevitabile interdipendenza con la compagine russa, dovuta a ben noti legami di tipo storico. In Croci rosse, Filipenko sembra mettere a nudo (utilizzando il calzantissimo tema della storia) tutti gli strascichi legati al sistema sovietico che influenzano interamente la quotidianità di un cittadino bielorusso: non ci fermiamo quindi alla “sola” lingua, ma andiamo oltre, toccando credenze, schemi di pensiero, azioni concrete che, in sostanza, limitano tutto ciò che è la vita. I personaggi di Filipenko sembrano racchiudere tutti un pezzettino di queste problematiche, a partire dallo stesso protagonista (anche lui curiosamente chiamato “Saša”), passando per Tat’jana, malata di Alzheimer, senza dimenticare poi tutte quelle figure secondarie che compaiono nel romanzo, indispensabili tasselli di un grande e complicato mosaico.

 

Saša Filipenko

 

Il concetto che meglio racchiude il senso di queste problematiche (che è parte integrante o forse addirittura base del tutto) e che traspare quasi prepotentemente in Croci rosse è proprio quello della croce, citata in tutte le sue forme (la Croce Rossa Internazionale, le croce fisica, quelle realizzate da Tat’jana, dunque quella simbolica legata al sacrificio) a cui si legano in maniera praticamente simbiotica poi i sensi della vita, della morte, ma soprattutto quello della memoria, sia collettiva che individuale; è proprio Tat’jana stessa, in un frammento del libro, ad affermare che riesce a ricordare le cose “grazie alle croci”. Arrivati a questo punto, le trame del romanzo risultano essere un perfetto connubio tra passato e presente, nonché tra dimensione privata, intima, e quella pubblica. Spesso, personaggi come Tat’jana o come Griša (il patrigno di Saša) riescono ad abbracciare queste sfumature nelle loro personalità, ma talvolta esse possono essere rievocate in maniera frammentaria, come appendice traumatica, oppure volontariamente costruite. È proprio qui che si evince il problema della memoria in relazione alla vita quotidiana, e dunque in relazione alla vita sociale e al sistema di cui si fa parte. La storia narrataci da Filipenko rivela in realtà problemi tipici di tutte le società (sin quasi dalla notte dei tempi), quelli legati alla diversità d’opinione, aggravati però dalla mancanza di elementi fondamentali per democrazia e uguaglianza: ciò che manca è la tutela di chi presenta un pensiero differente da quello “comune” o, come spesso accade, da quello che viene fatto passare per “comune”, ergo da quello di “regime”.

 

In questo caso, Tat’jana e Griša rappresentano (senza fare troppi spoiler) la stessa situazione trasposta però in una società completamente differente: la prima ha passato tutta la sua vita innanzitutto a comprendere il sistema sovietico, a ritagliarvisi un posto in esso, per poi capirne inefficienza e fragilità ed iniziare ideologicamente a rifuggirlo, venendo dunque perseguitata; l’altro, più semplicemente, appartiene a quella che potremmo definire come “orda dei nostalgici”, figure così diffuse non solo in Bielorussia, Russia o in altri paesi dell’Est Europa, ma anche in tutta Europa, se vogliamo fermare la nostra analisi a solo questa parte del globo. Dov’è la differenza? La differenza sta nel fatto che in una “democrazia” i secondi vengono tollerati, altrimenti cadrebbe il concetto stesso proposto da questo sistema politico, purché appunto il tutto avvenga nel rispetto degli altri, mentre nel caso dei regimi i primi vengono oppressi, senza alcun se o ma.

 

Qui entra il gioco il paradosso bielorusso, che però non è solo bielorusso, il cui decorso è ben visibile a tutti: quello di essere sempre meno una democrazia, finendo per diventare tutt’altro. La domanda che però sorge spontanea è la seguente: esiste effettivamente un limite oltre il quale si può smettere di definire uno stato come democratico? Dare una risposta a un quesito del genere non è semplice, soprattutto perché ci ritroveremmo inevitabilmente a toccare il tema della “definizione” e dell’immancabile soggettività a cui viene sottoposta tutta la realtà da noi percepita ogni giorno (pur trattandosi di un argomento alquanto oggettivo); per ovviare un minimo a questo problema, è necessaria una linea guida fondamentale in grado di guidarci lungo questo tipo di analisi, brevi o lunghe che esse siano: i diritti umani.

 

I diritti umani sono ciò che porta avanti l’intera trama e che lega il romanzo di Filipenko all’attualità, in maniera quasi lacerante: si parla soprattutto dell’indifferenza con cui l’Unione Sovietica trattò i prigionieri di guerra, sia propri che stranieri, ignorando letteralmente ogni tipo di richiesta da parte degli altri paesi mediata dalla Croce Rossa Internazionale (aggirando dunque, come se non bastasse, le convenzioni internazionali da loro stessi sottoscritte). Cos’è però che si nasconde dietro questo tipo di rifiuto da parte dei piani alti dell’Unione Sovietica? La risposta non è particolarmente difficile: basta solamente pensare al ruolo metaforico che ebbe durante la sua esistenza la stessa URSS, ovvero di antagonista, di “alternativa” a tutto ciò che era occidentale, capitalistico, ormai moralmente intaccato, mediante dunque la proposta di un nuovo modello di vita che differisse appunto dal suo futuro opposto. In tutto questo complicato e dinamico processo (se possiamo così definirlo), considerando le varie storico-politiche attraversate dall’Unione Sovietica nel giro di poco meno che un secolo, spesso i nemici veri e propri si trovano all’interno, praticamente alla stessa stregua – se non peggio – di quelli presenti oltre la cortina di ferro. È a questo punto che entra in gioco il concetto di Homo sovieticus, un uomo nuovo, differente, senza dubbio moderno, ma soprattutto totalmente devoto alla causa e all’essenza dello Stato.

 

La “storia” dell’homo sovieticus, ricostruita dai suoi albori ad oggi (siamo a circa trent’anni dalla sua apparente scomparsa) risulta essere di fondamentale importanza in questo contesto e il fatto che se ne discuta ancora rimarca la necessità, nonché l’impossibilità di non farvi riferimento e di “dimenticarlo”. Tanto per iniziare, l’homo sovieticus fa la sua comparsa nell’immaginario collettivo grazie a due entità in lotta tra loro: da una parte, il brillante lavoro di marketing messo in moto dalla propaganda sovietica, mentre dall’altra, la mente del sociologo e filosofo Aleksandr Zinov’ev. In particolare, vale la pena analizzare questa entità “mitologica” da un punto di vista strettamente sociologico iniziando, prima di tutto, dalla presentazione del suo genitore, proprio Zinov’ev.

 

Aleksandr Zinov’ev

 

Etichettato come dissidente a discapito della propria volontà, Zinov’ev riesce a farsi espellere dalla Russia Sovietica dopo aver ignorato per l’ennesima e ultima volta la direzione generale del partito in campo scientifico. Emigrato all’estero inizierà a scrivere un numero notevole di romanzi incentrati sullo studio filosofico e sociologico della società sovietica proponendo lo schema psicologico dei suoi cittadini e divenendo in questo modo padre di un genere totalmente nuovo: il romanzo sociologico. Ma chi è l’homo sovieticus? L’opera Homo Sovieticus esce per la prima volta sotto forma di samizdat nel 1970; il suo protagonista non ha né un nome né un volto, di lui sappiamo solo si tratti di un agente del KGB, infiltrato in Occidente tra gli emigrati russi in modo da poter in qualche modo servire il suo paese. Il fine concepito per lui dalle autorità non gli è noto, (e quasi sicuramente non esiste), ma la sua area di interesse e di expertise ci è da subito molto chiara: la società sovietica. Ed è così che attraverso le sue vicissitudini in Occidente il nostro agente arriva a descriverci le caratteristiche tipiche dell’homo sovieticus:

 

1) L’homo sovieticus è il prodotto dell’adattabilità umana a certe condizioni sociali;

2) Essendo stato addestrato a vivere in situazioni tremende, l’homo sovieticus è biologicamente pronto ad affrontare qualsiasi difficoltà, aspettandosi sempre il peggio;

3) L’homo sovieticus appoggia l’autorità e condanna i dissidenti;

4) L’homo sovieticus supporta la leadership poiché possiede una coscienza standardizzata e preconfezionata dall’ideologia;

5) L’homo sovieticus è custode e conservatore dell’ambiente che lo ha concepito;

6) L’homo sovieticus possiede una duplicità orwelliana: è morale e al contempo immorale – dipendentemente dalle circostanze;

7) L’homo sovieticus si immola alla mediocrità, poiché chi si erge al di sopra delle masse è considerato un pericolo;

 

Una lettura sociologica

 

Il potere dell’opera di Zinov’ev risiede nelle capacità letterarie dello stesso autore, in grado di creare una satira che ha dell’irreale per tutti tranne che per coloro che il socialismo lo hanno vissuto appieno sulla propria pelle. Per quanto criticato per il suo forte cinismo e per la debolezza scientifica delle sue opere (considerate troppo letterarie) nell’homo sovieticus descritto da Zinov’ev ritroviamo concetti d’impronta sociologica appartenenti a diverse scuole di pensiero. Tra tutte spicca The Social System di Talcott Parsons nonché elementi dalle teorie di Theodore Adorno della scuola di Francoforte. Talcott Parsons in The Social Systems aveva difatti teorizzato come le persone tendono a desiderare di essere dei “buoni cittadini” inclini ad obbedire alla legge della società alla quale appartengono e di cui, tramite un processo di internalizzazione, ne apprendono i valori e i simboli dando al contempo alla società stessa la possibilità di persistere. Theodore Adorno invece, di fronte all’emergere in Europa di sistemi totalitari come Fascismo e Nazismo, teorizzò coi suoi colleghi della scuola di Francoforte l’attrazione degli esseri umani per le leadership forti e di conseguenze per le personalità autoritarie. Portò inoltre alla luce come l’industria culturale possa essere fautrice della disseminazione di valori e simboli tramite l’indottrinamento auspicato da simili regimi. 

 

Tuttavia, a dare una vera impronta scientifica alla teoria zinoviana sull’homo sovieticus, ci sarà Jurij Levada. Sociologo sovietico di importanza internazionale, optò per uno studio di impronta positivista condotto tramite interviste e ricerche statistiche su campioni di popolazione russa a partire dal 1989 sino al 1999. Lo scopo della ricerca di Levada (potata poi avanti dall’Istituto Sociologico noto come il Levada Center) era in realtà quello di verificare come, alla caduta del regime sovietico, questa nuova personalità sarebbe andata a scemare sino a scomparire. Eppure, con la sorpresa dello stesso Levada, i suoi studi non solo certificarono scientificamente come la presenza del socialismo avesse sul serio alterato la mentalità dei russi ma come questa fosse permeata al punto da non poter scomparire. Le caratteristiche da lui evidenziate non si discostano molto da quelle messe satiricamente in luce da Zinov’ev. Ci troviamo infatti dinanzi a una personalità semplice e semplicizzata, obbediente alle autorità, indifferente al desiderio di emergere, ostaggio del gruppo ma al contempo isolata, caratterizza da una coscienza doppia in grado non soltanto di tollerare l’inganno e il sotterfugio ma pronta a perpetuarlo a proprio beneficio. Una personalità, insomma, non compatibile con le norme democratiche. Una lettura alquanto forte e dalle conseguenze disarmanti per un paese la cui situazione politica ha affascinato, e continua ad affascinare, scienziati politici da tutto il mondo intenti a dibattere sulla possibilità che la Russia possa o meno transitare verso un sistema democratico. È forse per questo che, per quanto scientificamente accurato, il lavoro di Levada non può essere utilizzato come unico specchio per decifrare la realtà.

 

Una prospettiva differente

 

La sociologia, come scienza, ha fatto passi da gigante nel volersi rendere indipendente dalla sua parte meramente matematica per andare ad abbracciare il suo lato umanistico, definendo il suo oggetto di studio, la società, come qualcosa di troppo complesso per poter essere analizzato solo unilateralmente. È in questo contesto che il lavoro della dottoressa Natalya Kozlova, presentata al mondo occidentale dalla scienziata sociale Gulnaz Sharafutdinova, ci appare come liberatorio e corriere di speranze. Attraverso una ricerca sociologica di stampo interpretativo e pragmatico, che vede il mondo sociale dal punto di vista dei suoi partecipanti (e non dei suoi osservatori), Kozlova costruisce con empatia l’immagine di una personalità quantomeno differente da quella sin troppo cinica di Zinov’ev e Levada e lo fa analizzandone la sfera dell’intimità tramite diari, cartoline e lettere. Le caratteristiche riscontrate mettono in luce degli attori coinvolti in un complesso gioco sociale, occupati a costruire la propria realtà non in maniera passiva ma attraverso dei processi comunicativi altamente interattivi. Nelle azioni quotidiane mostrano profondi segni di altruismo, compassione e senso della giustizia, nonché una spiccata creatività nel cercare di superare momenti difficili come quelli derivati della scarsità alimentare. Un’immagine a colori quindi ben distante dalla semplice dicotomia bianco e nero che, pur differendo dalla sua controparte, non va ad escluderla ma solo ad arricchirla. 

 

L’unione delle due ricerche, quantitativa (basata su fattori statistici) e qualitativa (basata su un approccio più “umano”) mostrano come oggigiorno parlare della sopravvivenza dell’homo sovieticus, imputando ai russi la volontà biologica di non voler cambiare, è del tutto opinabile e non scientificamente appurabile. La cruda realtà dei fatti è che questa personalità potrebbe non essere mai davvero esistita. Per quanto gli studi tutt’oggi condotti del Levada Center siano di assoluto interesse e non vadano né respinti, né archiviati, è forte la critica che i sociologi non possano proseguire la ricerca in un’ottica esclusivamente quantitativa. Questo perché gli intellettuali, per citare la dottoressa Gulnaz, “devono al pubblico un certo grado di auto-riflessione volto ad evitare di trasformare la propria delusione per l’assenza di un cambiamento democratico in Russia in un suggerimento che il cambiamento non sia possibile […]” e tutto ciò a causa dell’esistenza di una figura quantomeno mitologica soprannominata appunto homo sovieticus.

 

La teoria sociologica fornitaci dal preziosissimo lavoro di ricerca di Zinov’ev ci mette a disposizione uno strumento d’analisi utilissimo in primis per il romanzo di Filipenko e, di conseguenza, per cercare perlomeno di capire i complicati meccanismi di un regime totalitario, nel nostro caso specifico di quello sovietico e dei suoi retaggi. Considerando poi la questione inerente ai diritti umani e dunque anche alla questione democratica, possiamo certo pensare che l’essere umano è errante nel suo agire (in tutti i sensi), ma pensiamo anche che il diritto fondamentale di ognuno è quello di riuscire a vivere in condizioni appunto soddisfacenti da tutti i punti di vista. La lotta “politica” umana, da un punto di vista teorico, quindi riguardo i sistemi politici e sociali più adeguati da applicare in ciò che si può definire come “stato” o comunque comunità si basa proprio su questo, ma proviamo a considerare, d’altro canto, a quanto questo nostro agire possa essere sbagliato se un umano stesso, infine, al cospetto anche di un sistema considerato il più “giusto” per tutti dalla maggior parte delle persone in esso coinvolte, si trova poi a rispondere ai suoi simili allo stremo di ogni forza, psichica e fisica (proprio come in Croci rosse) “allora lasciatemi in pace”.

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