La caduta dell’Impero austro-ungarico: analogie e differenze tra “La metamorfosi” di Franz Kafka e “Il peso falso” di Joseph Roth

La metamorfosi di Kafka e Il peso falso di Roth mostrano diverse chiavi di lettura e molteplici interpretazioni a esse correlate: basti pensare solamente alla vita, alle opere e alla poetica di Kafka o allo stesso Roth, l’“errante”, per capire che le analisi condotte su un materiale così ampio e intricato possono essere allo stesso tempo oggetto di forte critica e larga approvazione. A tal proposito, mi sono imbattuto in varie analogie e differenze tra La metamorfosi e Il peso falso, poiché ho ritenuto valevoli di attenzione alcuni filoni che legano chiaramente sia le biografie che le opere stesse degli autori.

È necessario innanzitutto guardare al contesto politico, sociale e culturale in senso stretto, caratterizzato dal declino e dalla caduta di uno degli Imperi centrali europei. È interessante notare come si manifesti questa palpabile quanto inevitabile decadenza nella letteratura di questi due autori, testimoni della realtà esterna come della propria intimità. In questo percorso troviamo i complicati rapporti che gli autori e le proprie opere hanno con la realtà circostante: oltre la presenza della cultura minoritaria ebraica nel portato di entrambi, ad accomunarli è l’appartenenza a due regioni tutt’altro che storicamente germaniche, in cui si radica ancor più il concetto di minoranza: la Boemia e la Galizia.

 

Contesto storico-politico-sociale e autori. L’uomo ottocentesco, Austria felix e finis Austriae

Franz Kafka (1883-1924) e Joseph Roth (1894-1939) hanno vissuto, da uomini e da autori, non solo la fine dell’Impero austro-ungarico (ufficialmente avvenuta nel 1916), ma anche il processo della sua disgregazione sotto ogni punto di vista, disgregazione che influenzò il loro pensiero in maniera significativa. Da un parte troviamo Kafka, rappresentante dell’eterno bilico e dell’irrimediabile senso di disagio nel sentirsi vivi o comunque parte di una società: situazione, la sua, senza dubbio “aggravata” dal fatto di essere nato a Praga da una famiglia ebraica di lingua tedesca, con tutti gli strascichi politico-sociali che questa appartenenza implicava. Kafka è conosciuto in letteratura come scrittore di lingua tedesca, seppur si serva, come ripetuto molte volte dalla critica, di un tedesco molto semplice. Dall’altra parte troviamo nella “lontana” Galizia l’altrettanto complicata figura di Roth, con i misteri (sembrerebbe ora più o meno risolti) sulla la sua biografia: molti sono stati gli insabbiamenti operati dallo stesso autore riguardo l’origine della famiglia e riguardo la sua infanzia. Ciò che è certo è che nacque in una famiglia di tradizione ebraica in una cittadina (Brody, nell’odierna Ucraina) intrisa di cultura giudaica. Nonostante il ruolo più che secondario che la Galizia ricopriva ai tempi dell’Impero austro-ungarico, Roth sentiva un forte legame con la lingua e cultura tedesca, tanto da lasciare gli studi a Leopoli per trasferirsi a Vienna. Verrà in seguito riconosciuto come “cantore” della finis Austriae, dove per finis possiamo intendere latinamente le parole fine, termine come anche la stessa parola confine, considerata la sua regione di provenienza.

La differenza sostanziale tra i due, a prima vista, sarebbe proprio il rapporto che ognuno di essi ebbe con l’apparato imperiale, ma proprio questa differenza risulta essere uno dei più forti punti di contatto, che va oltretutto a braccetto con la cultura ebraica comune a entrambi. Kafka sente la pressione che già la sola conoscenza della lingua tedesca in ambiente minoritario comporta (il tedesco era uno dei maggiori mezzi di ascensione sociale nell’Impero) e ne rimane un po’ al margine, non tradendo il suo modo d’essere, mentre Roth in un certo senso ne è affascinato, e insegue il mito di questo impero in grado di unire diverse culture in ottica cosmopolita. Ciò non toglie che entrambi possano essere considerati delle chiare testimonianze riguardo la fine di un’epoca con tutto ciò che essa comporta, ma al contempo possono essere considerati anche testimoni dell’inizio di una nuova epoca, quindi della nascita di quello che oggi definiamo un uomo nuovo.

Per giungere al concetto di finis Austriae però è necessario introdurre ciò che storicamente e culturalmente lo precedette: l’Austria felix. Bella gerunt alii, tu felix Austria nube, in italiano “le guerre le fanno gli altri, tu, Austria felice, sposati”, è stato il motto promulgatore della politica matrimoniale asburgica, attribuito storicamente alla figura di Mattia Corvino re d’Ungheria. Oltre che a indicare una modalità di cui l’Impero si serviva per diffondersi su territorio europeo, per sillogismo il concetto di Austria felix si è identificato con un’idea di armonia, benessere ed euforia diffusisi maggiormente e paradossalmente proprio durante gli ultimi anni imperiali, poco prima dell’imminente caduta. L’illusione di un’Austria felice derivava dalla capacità dell’Impero di unire e far convivere “pacificamente”, servendosi di un buon apparato amministrativo, popoli estremamente differenti: esempio lampante sono i luoghi d’origine dei nostri due autori, in particolar modo la Galizia di Roth che vedeva condividere la quotidianità di polacchi, ucraini, ebrei, tedeschi, come anche di altre minoranze. Vienna venne all’epoca considerata l’emblema e la sintesi, affascinante e complessa allo stesso tempo, della graduale decadenza di un Impero in passato grande e glorioso. Negli ambienti culturali viennesi si inizia a manifestare un senso di disagio esistenziale che sarà materia di studio della successiva psicoanalisi: nella capitale è palpabile una crisi che investe la tradizionale visione del mondo e del ruolo dell’individuo in esso. Si propone un nuovo modo di guardare la realtà, cosa che si concretizzerà più tardi con la formazione del “Circolo di Vienna” sotto il concetto di Neopositivismo o Positivismo logico. In questo percorso sarà fondamentale il contributo di grandi intellettuali provenienti da diversi campi come la filosofia, la matematica, la fisica, la giurisprudenza; tra i diversi nomi occorre ricordare quello di Ludwig Wittgenstein con il suo Tractatus logico-philosophicus (1921). Proprio in questo contesto si propaga tra il popolo il mito di un’Austria felix, creando un clima di paradossale vivacità, mentre gli intellettuali si fanno testimoni e osservatori, consapevoli o meno, di ciò che fu la finis Austriae, come nel caso di Kafka e di Roth.

 

Sulla complessità dell’identità nell’Impero e nella cultura germanica. Il rapporto con le minoranze

 

Il discorso inerente all’identità e quindi alla coscienza nazionalpopolare all’interno dell’Impero – come anche nel caso di altri paesi e popoli – è tutt’altro che semplice. Per comprendere al meglio come si è giunti alla messa in discussione generale riguardo la figura dell’uomo a inizio XX secolo e seguire un filo conduttore nel nostro percorso, occorre partire dal definire con cosa veniva configurata e in che modo veniva intesa l’identità su territorio germanico.

Le due parole chiave attorno le quali ruota l’intera questione sono Heimat e Vaterland. Come già suggerito precedentemente, questi due concetti non presentano un’interpretazione univoca e possono racchiudere in sé più di un significato. Provando a categorizzarli sinteticamente, si potrebbe indicare come Heimat tutto ciò che riguarda la patria intesa come luogo d’identità in senso puramente intimo, accogliendo in sé anche significati in contrapposizione tra loro, come il senso di familiarità misto allo stesso tempo ad un qualcosa di sconosciuto e poco chiaro, misterioso. La Heimat però, a differenza del Vaterland, è un concetto mobile, non soggetto a rigide imposizioni, che può essere appunto accolto da chiunque come una sorta di state of mind. Come facilmente intuibile, il Vaterland riguarda sì anch’esso la questione identitaria, ma vi si inserisce in maniera rigorosamente individuale, identificando dunque con questa parola la patria come luogo ereditato “dai padri”, comparabile forse a un apparato più grande, come quello istituzionale. Considerando l’ampio significato del termine Heimat, riconosciamo che la situazione in cui versano autori come Kafka e Roth risulta inizialmente contrapporsi a quel clima di intimità che indica la parola stessa; ma addentrandoci nella vita e nelle opere di questi due grandi scrittori ci si rende conto che la loro personale situazione di vita ingloba sia il sentirsi parte di quella realtà, sia il non-sentirsi parte di essa, traducibile in enorme ed eterno odi et amo, mai troppo chiaro e sempre aperto al mistero e a nuove interpretazioni. Un po’ per necessità, un po’ per un inspiegabile bisogno interiore, ritroviamo Franz Kafka e Joseph Roth non solo nelle vesti di due dei più grandi autori di inizio XX secolo, ma anche nelle vesti di testimoni di questi intricati rapporti tra identità popolare e identità individuale.

È necessario dunque introdurre i luoghi in cui crebbero Kafka e Roth, ambienti che influenzarono la loro vita e produzione letteraria. Il nocciolo della questione ruota attorno alla religione ebraica, che sebbene ponga le basi per una sensibilità comune, si presenta ai due con peculiarità differenti. Per delineare al meglio la questione ebraica nell’Impero austro-ungarico occorre innanzitutto partire da un concetto comune per tutte le minoranze presenti al suo interno: la lingua tedesca era uno strumento necessario per la mobilità sociale. Le minoranze incontravano tuttavia grosse difficoltà in questo necessario processo di “germanizzazione”, visto il forte senso di identità che portavano con sé nelle proprie comunità. Nell’Impero gli ebrei erano ben visti se disponibili a uniformarsi, ma ciò comportava inevitabilmente un cambio di vita a livello religioso, o meglio, un allontanamento da quello che era il culto tradizionale. È proprio qui che inizia a demarcarsi in maniera significativa la spaccatura spirituale di cui abbiamo testimonianza nelle opere dei nostri due autori, ovvero la divisione tra i cosiddetti ebraismo “d’Oriente” ed ebraismo “d’Occidente”. Questa coppia antitetica è facilmente traducibile nella conseguente differenza che sussiste tra la vita in una comunità ebraica di città e la vita in uno shtetl.

Gli shtetl compaiono già nell’Europa della Confederazione polacco-lituana del XVI secolo. Questo processo di quasi “emarginazione” territoriale della popolazione ebraica venne accelerato dopo le spartizioni della Polonia: l’allora Impero russo, dopo aver introdotto restrizioni più severe nelle proprie province nei confronti degli ebrei, li costrinse ad accentrarsi e a popolare la cosiddetta “zona di residenza”, regione all’epoca in cui era permesso loro vivere; molti sthetl, inoltre, si trovavano in zone come la Galizia e la Romania. Come villaggio, lo shtetl non era abitato solamente da ebrei, sebbene rappresentassero la maggioranza della popolazione.

Uno dei punti di rottura che portò al consolidarsi delle due concezioni dell’ebreo d’Oriente e d’Occidente fu data da dei motivi di natura culturale, politica ed economica: alcune famiglie furono costrette a lasciare le loro cittadine a maggioranza ebraica per cercare fortuna in centri maggiori, innescando così un fenomeno migratorio (a partire circa dagli anni Quaranta dell’Ottocento) che porterà al depauperamento degli shtetl. Tale sorte fu comune al padre di Kafka, Hermann, che lasciò il piccolo villaggio di Osek per stabilirsi poi a Praga, diventando di fatto l’ebreo che si uniforma.

Nella vita di Franz trascorsa nella Praga ebraica e nell’esperienza di Roth ritroviamo quindi la contrapposizione tra ebreo di campagna ed ebreo di città, riflesso dell’annosa questione della spaccatura tra ebraismo d’Oriente e d’Occidente. Oltre alle caratteristiche tipiche di queste due frange, ovvero rispettivamente da una parte il conservatorismo, dall’altra l’allontanamento dalla tradizione, notiamo che proprio in questo contesto emergono le differenze tra Kafka e Roth sul “piano ebraico”: Kafka non si sente più parte della tradizione ma non riesce a staccarsene; ne continua ad analizzare i meccanismi, a parteciparvi e a usarla ricorrentemente – seppur in maniera indiretta – anche nei suoi scritti. Roth la accetta, ma la accetta nella sua forma “diasporica” (1), indissolubile dalla storia europea e dal suo carattere “errante” (rifiuta infatti completamente il sionismo nato e sviluppatosi su territorio austro-ungarico), dovuto a una poetica basata su un rapporto conflittuale con il proprio shtetl e fondata sul concetto di Heimatlosigkeit (“essere senza patria”).

Roth, d’altra parte, condivide con Kafka quella stessa sensazione di vita, esprimibile in tedesco con la parola schweben, ovvero “essere sospeso in aria”. Se per Kafka, nonostante i retroscena in parte diversi, il “sentirsi sospeso in aria” nella vita era materia quotidiana, la condizione di un abitante dello shtetl, come Roth in giovinezza, equivaleva alla stessa sensazione, ma non solo: per tutta la vita Roth è stato una figura “errante”, vagante in posti – fisici e non – totalmente diversi. Da cosa è dovuto, quindi, questo comune senso estraniante che pervade queste due personalità? Riguarda la solo condizione dell’ebreo dell’epoca o è riconducibile ad una questione ontologicamente più ampia che può anche abbracciare in toto l’individuo di inizio XX secolo?

 

L’identità in Kafka. La metamorfosi

 

Per quanto concerne l’elemento religioso nella produzione letteraria di Kafka, lo scrittore boemo è intriso di tematiche tipicamente ebraiche. Le sue trame e i suoi personaggi si fanno carico di forti concetti come l’esilio, la colpa, l’espiazione, e affronta il tema dello sradicamento e della persecuzione senza mai riferirsi però direttamente a queste come problematiche dell’uomo di confessione ebraica. Luperini riporta infatti a riguardo:

[…] il protagonista [dei romanzi di Kafka] deve sempre espiare un colpa, talora a lui stesso ignota (come in Il processo), in una società incomprensibile e assurda che lo perseguita e a cui deve sottomettersi (2).

Un chiaro collegamento con la cultura ebraica è presente proprio nel racconto La metamorfosi dove, affrontando i temi sopra citati, l’autore sceglie il cognome “Samsa” per la famiglia di Gregor, famiglia che ricorda a grandi linee quella dello stesso Franz: riferendoci ai ruoli del padre, della madre, della sorella e anche di se stesso, Kafka si serve di un elemento poi identificato come tipico dei suoi romanzi, ovvero l’inversione dei ruoli. Ma tornando direttamente ai legami racconto-realtà, notiamo che l’origine e quindi l’appartenenza del cognome Samsa è contesa tra l’ambiente cristiano e quello ebraico, permettendo a Kafka di utilizzare il suo emblematico marchio di fabbrica: l’ambiguità. Nello stesso processo di denominazione dei propri personaggi, tralasciando sporadici casi come quello dei Samsa, il Kafka del periodo della maturità si attiene a due parametri fondamentali: genericità e anonimato. È infatti possibile riscontrare nelle sue opere un percorso che gradualmente porta a quest’ultimi: i romanzi scritti in gioventù presentano personaggi dai nomi propri di famiglie tedesche rafforzati dal suffisso -mann (come Bendemann ne La condanna), sostituiti poi da nomi comuni indicanti dei particolari ruoli (come il Messaggero, il Condannato, il Trapezista), per concludersi infine con l’utilizzo delle iniziali puntate (K.). Si può prendere in considerazione questo processo come testimonianza di una progressiva crisi d’identità le cui radici sono riscontrabili già nelle prime opere. Non si tratta però di un percorso lineare: l’anonimato compare all’inizio della sua carriera, scompare e poi ritorna in auge, rivelando alti e bassi compatibili con l’andamento della crisi. Ne La metamorfosi si intravede già la conclusione di questo percorso, dove il processo di febbrile depersonalizzazione dei personaggi si traduce in qualcosa di sconosciuto e inquietante, sposando in pieno la natura dell’Heimat. Le figure rappresentate iniziano a perdere le fattezze tipicamente umane rimanendo in un limbo tra l’uomo e l’oggetto, quasi fossero intrappolate in un processo in atto, di cui non si hanno certezze, nemmeno sulla fine.

Stando a un frammento presente nei Diari (6/08/1914), Kafka dichiara che i suoi scritti sono specchio della propria interiorità, in cui il nuovo “io” non è altro che una proiezione di se stesso soggetta a una potente capacità di astrazione. In parole povere, Kafka racconta la propria realtà effettiva modificata dall’azione del suo pensiero: i personaggi di Kafka sono contemporaneamente Kafka e non sono Kafka, come nel caso di Gregor Samsa. Romano Luperini considera l’allegoria “kafkiana” come specchio delle vicende vissute dall’autore stesso, cosa che poi di conseguenza porta a definirla “vuota”, ovvero: Kafka rappresenta una vicenda per “dire altro”; ma questo “altro” resta indecifrabile e dunque indicibile: il significato è fuggito dalla vita e ne resta solo l’esigenza (3).

L’autore stesso però, parlando proprio della Metamorfosi, in qualche modo contraddice quel che si evince dai suoi Diari, dicendo: Samsa non è senz’altro Kafka. La metamorfosi non è una confessione, pur essendo in un certo senso una indiscrezione, e mettendo ancora una volta in evidenza l’ambiguità e l’incapacità di collocarsi in uno spazio ben definito.

Nell’ultima fase inerente al troncamento dei nomi (K.), Kafka mostra la sua personale visione del mondo in cui involontariamente è stato posto: il suo status di ebreo, il disagio creato da questa vita non voluta lo porta ad amputare il proprio nome, poiché l’individuo identificato come “Kafka” non è degno di essere presentato per intero, ma solo a metà, o -peggio- per niente. Ricorda infatti in una lettera indirizzata alla sorella: È una disgrazia che non ci si possa presentare fin dall’inizio tutti interi!

È pur vero che sarebbe impossibile esprimersi totalmente riguardo il proprio essere, la propria identità, racchiudendo ogni tipo di implicazione che un processo del genere richiederebbe, ma non si può nemmeno arrivare al punto di negarla e di non provare a spiegarla: infatti Kafka, sintetizzando l’essenza dell’identità nell’espressione “K.” rimane ancora una volta in bilico tra le due concezioni.

Vorrei anche che tu mi dicessi che cosa sono io in realtà: nell’ultimo numero della Neue Rundschau La metamorfosi è menzionata, respinta con motivazioni ragionevoli e accompagnata da queste parole: L’arte di K. come narratore ha qualche cosa di profondamente tedesco”. Nell’articolo di Max si legge invece: “I racconti di K. sono tra i documenti più ebraici del nostro tempo”. Caso difficile. Sono forse un cavallerizzo da circo su due cavalli? Purtroppo non cavalco, ma sono disteso per terra. (F. Kafka, Lettere a Felice, 7 ottobre 1916)

In questo frammento di lettera indirizzata a Felice Bauer si nota come Kafka, con l’esclamazione finale, rimarchi l’attenzione su di sé. Da questa affermazione nasce indirettamente un interrogativo sul senso e la natura della propria esistenza, poi trasferito ai suoi personaggi. Il bilico che si riscontra nei suoi protagonisti non si trova però solamente nell’ultimo Kafka con il personaggio di K., ma è già riconoscibile nella Metamorfosi: l’essere è impossibilitato a sentirsi intero a livello di identità, è un fardello che l’autore e i suoi personaggi sono costretti a portare sulle proprie spalle, come in tutta la vicenda di Gregor, fino alla fine.

Sul tabù del nome è necessario aprire una parentesi che affonda le proprie radici nella tradizione ebraica. Esso è generalmente riferito al nome divino (YHWH), ma in Kafka il focus del tabù passa dal Dio degli ebrei all’ebreo umano stesso. Ciò apre una profonda riflessione sulla figura dell’ebreo moderno e della “diaspora” moderna che egli vive: l’autore riesce a utilizzare lo stesso principio sul tabù grazie al fatto che ormai l’identità di Dio è sconosciuta, come la stessa identità dell’ebreo a causa di un’evoluzione del concetto maturata in millenni. Oggigiorno, entrambi condividono la stessa sorte. L’individuo è perciò costretto alla clandestinità e il suo nome, come quello del divino, rientra nella sfera dell’innominabile, vicina al mistero e al sospetto. Se si attua un passaggio dal particolare al generale, questa presa di coscienza sulla condizione umana dell’ebreo moderno, a partire dai concetti di senso di colpa, sofferenza o espiazione fino all’amputazione del nome, potrebbe essere letta come analisi ontologica sulla figura dell’uomo contemporaneo a Kafka e sui cambiamenti socio-politici (nonché l’alienazione) a cui in quell’epoca era soggetto.

Quella di Kafka è una poetica, compresa ovviamente anche ne La metamorfosi, con una “coscienza acuta della modernità” (4) legata indissolubilmente a quella che è la tradizione ebraica. La lucidità e la consapevolezza di questa prosa si mescola armoniosamente all’elemento onirico e grottesco; in essa Kafka riesce a far trasparire la vitalità della cultura praghese a lui contemporanea nella convivenza con le modalità dell’Impero austro-ungarico, nonostante le evidenti contraddizioni, consacrando quindi, grazie a questa consapevole commistione, il nuovo romanzo kafkiano a ciò che noi definiamo “moderno”. L’oscillazione tra la raffigurazione della modernità e i temi tipicamente ebraici come quello ricorrente della colpa si risolve spesso in un delirio onirico, passando da analisi della realtà circostante e della modernità, ad un progressivo smarrimento identitario del protagonista (5); proprio quest’ultimo elemento ci porta a riflettere su quella che è la condizione non solo di Kafka e suoi personaggi, non solo dell’ebreo di inizio XX secolo, ma dell’uomo dell’epoca nella sua totalità.

 

L’identità in Roth. Il peso falso

 

Come introdotto precedentemente, Joseph Roth ha più volte depistato le proprie origini, creando così un fitto alone di mistero attorno alla sua persona, ma con sicurezza si può affermare la sua appartenenza a quello che era uno shtetl, Brody, da cui in giovane età andrà via. L’abitante dello shtetl, come il posto stesso, era un abitante che viveva letteralmente nel limbo, tra terre, culture e persone diverse, un po’ come Kafka nella sua Praga. Ma cosa ha portato Joseph Roth ad emigrare e perché è stato definito “errante”? Senza dubbio è possibile ricercare una risposta, o per lo meno si può azzardare a darne una, analizzando la sua biografia e la sua poetica.

L’essenza dell’abitante dello shtetl in verità non ha mai abbandonato Roth, che curiosamente visse la maggior parte della sua vita dopo l’emigrazione in stanze d’albergo, ponendosi tra il rifiuto di una vita borghese intesa in senso conformistico e l’attrazione verso una vita leggera, quasi aristocratica, senza badare troppo al futuro e alle spese. Nella sua personale scelta in materia d’identità ritorna quindi anche in lui l’avversione (oppure l’incapacità?) a collocarsi in uno spazio ben definito (6). Il tema dell’albergo, infatti, quasi una personale Heimat dell’autore, è ricorrente nella sua opera, come l’osteria frequentata spesso da Eibenschütz ne Il peso falso, prima oggetto di indagini e diffidenza e poi luogo di bivacco e perdizione di Anselm. In Roth l’albergo rappresenta un territorio neutro, dove si incontrano e convivono nel vero senso della parola culture e genti diverse: in questo modo egli può sentirsi, come suggerisce lo storico Peter Coulmas, un “cittadino del mondo”, un “cosmopolita”, che può bearsi di tutta quella diversità senza davvero farne parte.

La condizione in cui ripiega, quella di un senzapatria, dove il concetto di esilio viene accettato nella sua interezza, è  quindi di carattere ontologico (7). In un’Europa in cui i nazionalismi raccoglievano sempre più consensi, soprattutto dopo la prima guerra mondiale, agli occhi di Roth gli alberghi rappresentavano dei luoghi in cui era possibile spogliarsi del proprio “fardello” della nazionalità ed essere un uomo inteso come parte dell’umanità, un uomo uguale agli altri. Questa possibilità, nonché miraggio di convivenza pacifica, veniva identificata dall’autore nelle fattezze dell’Europa asburgica che, nonostante tutto, gli sembrava essere “una torre di Babele in cui le persone avevano iniziato a capirsi” (8). Infatti l’Austria-Ungheria fu per Roth l’unica vera “patria”, essendo stata idealizzata nel suo pensiero, una patria dove il concetto di nazionalismo e tutto ciò che esso implicava – xenofobia, razzismo ecc. – cadeva. Berlino risultava ai suoi occhi una città fredda, senza alcun sentimento, nemica quasi dell’umanità, a cui contrapponeva i margini dell’impero da cui proveniva, accentuando la differenza tra le due proprio come nella metafora di Magris sul Reno, “guardiano mitico della razza”, e sul Danubio, “la Mitteleuropa germano-magiaro-slavo-ebraico-romana” (9). Ciò che restituisce in un certo senso speranza nella persone di Joseph Roth è la scoperta di Parigi e della Francia in generale, con particolare attenzione per il Sud del Paese, che definirà degno di un’Europa cosmopolita e in cui ne vedeva il futuro, finalmente multiculturale. Inoltre afferma di aver trovato nel Sud francese non solo il futuro dell’Europa, ma le basi di una Mitteleuropa ebraica nel ruolo di intermediaria tra il mondo d’Oriente e il mondo d’Occidente. Con l’avanzare degli anni e soprattutto degli avvenimenti storici (prima col crollo della Repubblica di Weimar, poi con l’avvento del Terzo Reich), Roth si distacca idealmente dal mondo germanico; l’unico elemento che lo fa ancora sentire parte di questa realtà è la lingua, che secondo l’autore era l’unico modo per salvare il popolo tedesco dal nazionalismo sempre più dilagante: solo così la Germania poteva sperare in un futuro cosmopolita.

Il peso falso dimostra come la mancanza di valori e di qualcosa in cui credere abbia come conseguenza lo svuotamento e la regressione dell’uomo (10), di come l’uomo (o meglio, lo stesso Roth) ritorni idealmente al passato, nelle trame e gli sviluppi, dell’Impero austro-ungarico, dove nonostante tutto c’era una forma di convivenza tra genti e di cosmopolitismo. D’altro canto, l’autore è anche consapevole dell’inconsistenza dell’attaccamento al passato, del rimettersi alla speranza che possa tornare, nonostante ne riconosca l’illusorietà. Il testo si rivela dunque un percorso verso dissoluzione e viziosità, sintomi della decadenza dell’impero. Il peso falso è una chiara critica dell’ebreo assimilato, ovvero occidentalizzato, che vive senza ormai curarsi di alcun valore. Al tempo stesso l’occidentalizzazione dell’ebreo, inizialmente concepita come adattamento al progresso, è proprio ciò che Roth critica in questo romanzo, traslando quindi la critica non solo al mondo ebraico, ma all’andamento dell’umanità all’inizio del secolo: la chiave di questa interpretazione sta proprio nell’ambientazione del racconto. Egli inscena il suo breve romanzo durante gli ultimi tempi dell’Impero: poiché Il peso falso venne pubblicato significativamente dopo la caduta dell’Impero, esso risulterebbe essere la critica di quel mondo che Roth stava vedendo e vivendo, originatosi col declino dello stesso e conclusosi con la venuta di colui che l’autore stesso definì l’“Anticristo”, Adolf Hitler.

 

Rapporti con la contemporaneità: modernismo e postmodernismo. Sulla formazione di una nuova identità


Il concetto chiave che si evince – seppur declinato in maniere differenti – dalle opere di Franz Kafka e di Joseph Roth è che al centro dei problemi di quel modernismo che andava delineandosi si trovano l’uomo e i valori a lui legati. La figura umana è in continuo mutamento: tra il XIX e il XX secolo ha assunto le tinte che attualmente definiremmo “moderne”, avvicinandosi e contribuendo alla formazione dell’attuale coscienza sociale, culturale, politica, dell’essere in ogni sua sfaccettatura. Nel suo appartenere all’attuale concetto di identità, riconosciamo che quanto attanagliava allora l’uomo non è scomparso, rendendolo quindi un problema non solo del modernismo vissuto da questi due autori, ma anche del nostro postmodernismo. Si potrebbe ovviamente dibattere sulle fattezze dell’una e dell’altra concezione, chiedersi se ciò che viviamo in questa contemporaneità possa essere effettivamente definito come tale, se sia ideologicamente superato oppure addirittura mai sopraggiunto, visto che alcuni definiscono la nostra epoca come una continuazione del modernismo stesso. È palese che un dibattito di tale entità non trovi mai una risposta ben definita, essendo esso soggetto, come tutto del resto, all’interpretazione e alla propria percezione della realtà.

Il nocciolo della questione risiede in questo: entrambi i nostri autori si sono forse resi protagonisti – inconsciamente o con una buona dose di consapevolezza – di una teorizzazione sull’avvenire sociale e intimo dell’uomo moderno? Può essa generalmente considerarsi anche inerente all’essere umano inteso come parte integrante di una società in senso lato? Sono stati in grado di dimostrare e comprovare un problema di carattere ontologico che colpiva l’uomo dell’epoca, seguendo le tracce e i resti di periodi passati, nonché elementi fondanti la loro contemporaneità? La risposta è sì, ed è ben visibile proprio in opere come La metamorfosi e Il peso falso. Sia Kafka che Roth partono dall’analisi indiretta, grazie ai ruoli di intermediari ricoperti dai loro rispettivi personaggi, di se stessi: abbiamo avuto modo di notare le coincidenze tra i Kafka e i Samsa, tra lo stesso Franz e Gregor, mentre dall’altra parte abbiamo riconosciuto le analogie con i luoghi di Roth, a partire dalle stanze d’albergo, passando attraverso l’incontro di culture diverse e, soprattutto, la questione ebraica, comune a entrambi.

La parziale autoreferenzialità comprovata di queste opere dimostra come l’analisi non si fermi solo alle loro coscienze, ma si ritrovi ad abbracciare una problematica comune a tutto il genere umano. Nell’opera kafkiana analizzata, come in quella di Roth, il tutto si risolve in maniera drastica, ma se si fa riferimento alle intere poetiche dei due ne traiamo le seguenti conclusioni: nel primo notiamo come, nonostante la presenza del disagio e della perenne sensazione di sospensione esse si traducano, o in un modo nell’altro, sempre in un’inevitabile senso di appartenenza a una comunità di cui risulta impossibile liberarsi; nel secondo invece la faccenda si risolve con la speranza (e forse illusione), seppur latente, di un futuro cosmopolitismo per lo meno su scala europea, a cui forse oggi, provando a guardare in maniera più obiettiva e distaccata possibile all’andamento dei tempi correnti, stiamo assistendo grazie al fenomeno della globalizzazione nel sociale e nel culturale, mediato da quella che è l’UE e l’identità che essa comporta.

 

 

Note

1. Traverso E., L’Europa senza patria: Joseph Roth [Cosmopoli. Figure dell’esilio ebraico-tedesco], Ombre Corte Editore, Verona 2020, p. 48.
2. Luperini R., Cataldi P., Marchiani L., Marchese F., Il nuovo la scrittura e l’interpretazione. Storia della letteratura italiana nel quadro della civiltà europea: Naturalismo, Simbolismo e avanguardie (dal 1861 al 1925), tomo 5. Edizione rossa, Palumbo Editore, Palermo 2011, p. 591.
3. ivi, p. 592
4. Venturelli A., L’età del moderno. La letteratura tedesca del primo Novecento (1900-1933), Carocci Editore, Roma 2009, p. 124.
5. ivi, p. 166
6. Traverso E., L’Europa senza patria: Joseph Roth [Cosmopoli. Figure dell’esilio ebraico-tedesco], cit., p. 43.
7. ivi, p. 44
8. ivi, p. 47.
9.ibid.
10. Wikipedia.org (2020), Il peso falso (https://it.wikipedia.org/wiki/Il_peso_falso).

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