Oggi ho cercato così, per sfizio personale, Best Hungarian Movies su Google. E mi sono reso conto, oltre che della notevole portata del mio tedio esistenziale, che “A Tanú”, tradotto come Il Testimone, figura in pressoché ogni lista che io abbia controllato. In realtà esiste un ulteriore motivo per cui sto scrivendo due righe a proposito del film, ma anche di film, ossia il Magyar Nemzeti Filmarchívum (Archivio Nazionale dei Film ungheresi), abbreviato in NFI.
L’istituto è nato nel 1957 sotto il nome di Színház- és Filmtudományi Intézet (Istituto di teatro e scienze cinematografiche), e da quel giorno, nonostante sia stato sottoposto a svariati cambi di nomi fino a raggiungere il suo nome corrente Magyar Nemzeti Filmarchívum nel 2000, il suo obiettivo rimane pressoché invariato: l’acquisizione, raccolta, conservazione, restauro, proiezione ed archiviazione di lungometraggi ungheresi. Sono inclusi in questa lista anche documentari, cinegiornali, film d’animazione e film classici.
Il manutentore e supervisore di questa attività fu il Nemzeti Kulturális Örökség Minisztérium (Ministero del Patrimonio Culturale Nazionale), ma oggi quest’ultimo non esiste più singolarmente, dal momento che dal 2006 è stato accorpato con l’Oktatási Minisztérium (Ministero dell’educazione) per creare l’Oktatási és Kulturális Minisztérium (Ministero della cultura e dell’educazione). In poche parole, una Cineteca di livello nazionale e finanziata dallo Stato. L’idea della creazione di un archivio proviene prevalentemente da Béla Balázs, che nel 1931 teorizzò una strategia per la preservazione e il mantenimento di una raccolta storica dei film muti ungheresi, catalogati per descrizione e categorie particolari, al fine di creare un continuum storico-culturale della cinematografia ungherese.
Questa “mania filologica” è qualcosa di molto sentito dagli ungheresi. Il mantenimento dell’idea di patria con delle fondamenta letterarie solidissime e la quasi ossessione per il lignaggio nazionale sono topoi molto ricorrenti in poesia, letteratura, musica e addirittura nell’architettura ungherese. Basta osservare la Hősök tere, la Piazza degli eroi, per rendersene conto.
Una delle pagine web gestite dal MFI è Alapfilmek (Film di base), che si occupa di storia dell’archivio ma soprattutto di film a scopo educativo. Per il periodo di quarantena, è stata aperta una sezione chiamata Online Filmklassikusok (Classici online) che contiene 90 film gratis, molti dei quali sottotitolati in inglese e altri in altre lingue come francese e tedesco, tutti in alta definizione. I film sono divisi in tre categorie: Irodalmi adaptációk (adattamenti letterari), Történelmi témájú filmek (film storici) ed infine Gyermek- és ifjúsági filmek (film per bambini e ragazzi). Insomma, un’occasione imperdibile per recuperare film altamente difficili da reperire fuori dall’Ungheria, soprattutto in alta definizione.
A Tanú non è direttamente disponibile dalla lista, ma è presente in una sua pagina a sé stante. Inoltre non parlerò dello svolgimento della pellicola e della sua conclusione, perché non vorrei rovinarne la visione a chi non lo ha ancora fatto. Preferisco, piuttosto, parlare del contesto storico in cui è stata concepita quest’ultima e come e perché il film è così famoso.
La pellicola è stata diretta da Bacsó Péter, è stata rilasciata nel 1969 e ha ricevuto all’unanimità l’elogio della critica, raggiungendo lo stato di cult per essere una delle critiche più aspre, sfacciate e divertenti sul comunismo. L’aspetto forse più comico del film è che è stato sovvenzionato proprio dal Partito Comunista, e quando quest’ultimo ne scoprì la natura sovversiva ne bloccò prontamente l’uscita. Questa assurda spensieratezza, visto il clima in cui è stata concepita la pellicola, è data dalla nascita di una nuova corrente stilistica chiamata New Wave ungherese (HNW). L’HNW fu fondata dai nuovi registi ungheresi nel 1960, qualche anno dopo la Rivoluzione del 1956. Il leader del Partito Comunista Ungherese al tempo era Kádár János, successore di Rákosi Mátyás, il fautore della dittatura a stampo stalinista che durò dal 1947 al 1956. Kádár decise di alleggerire la censura imposta dal regime passato su determinati temi prima considerati proibiti. Tale misura diede modo ai registi dell’epoca di poter creare film su argomenti prima considerati ancora dei tabù: uno di questi era, per l’appunto, la rivoluzione passata. L’ispirazione per il taglio registico e per il nome della corrente venne dalla Nouvelle Vague francese. Questi due fattori furono cruciali per l’industria cinematografica ungherese, che riuscì a catturare l’attenzione dell’Occidente grazie ai lavori di alcuni registi come István Szabó, Miklós Jancsó e Zoltán Fábri (che ha anche un ruolo da attore in A Tanú).
Il film rimase in stato di fermo per dieci anni, ma riuscì a partecipare ad eventi all’estero che gli valsero una nomea riconosciuta, al punto tale che le autorità comuniste decisero di permettere la sua distribuzione in Ungheria e nel 1979, fu proiettato per la prima volta in terra natia. Dopodiché, la pellicola approdò anche nella sezione fuori concorso “Un certain regard” al festival di Cannes del 1982, quel festival dall’aura quasi mitologica che presentava film da tutto il mondo con stili di narrazione non convenzionali. (A proposito di cinema ungherese, nel 2014 questa sezione è stata vinta dal film ungherese Fehér isten di Mundruczó Kornél).
Nonostante sia uscita sotto il regime di Kádár, la pellicola è ambientata nel periodo del Rákosi-korszak (Periodo di Rákosi) e vede come protagonista József Pelikán (Kállai Ferenc) , uomo sempliciotto e bonario, lasciato solo dalla moglie e che mantiene i suoi figli lavorando sulle sponde del Danubio come controllore degli argini. Un giorno si ritrova impossibilitato a comprare la carne al negozio per i suoi figli, al che pianifica di uccidere il proprio maiale, Dezső. Il problema intrinseco di questa pratica è che era illegale. Pelikán allora decide di far cantare i propri figli per coprire i grugniti di dolore di Dezső, che viene soppresso con mezzi di fortuna nella cantina di casa.
Il giorno seguente Pelikán incontra uno dei suoi vecchi Compagni, Dániel Zoltán (Fábri Zoltán) che adesso ricopre la carica di ministro e sta pescando sulle medesime rive del Danubio dove Pelikán lavora. Alla vista di un pesce gatto, Dániel si lancia nel fiume e Pelikán riesce a salvarlo. Dopodiché, Dániel verrà portato a casa di Pelikán per essere preventivamente curato, così che non si ammali. Ma, a causa di una “komoly, névtelen, írógéppel írt feljelentés” (denuncia scritta grave ed anonima), la polizia fa visita a Pelikán. Dániel cerca di dissuaderli con ogni mezzo, racconta loro che Pelikán è sempre stato un compagno modello, profondendosi in dettagli e lunghi aneddoti. Questa sceneggiata si protrae finché Dániel non apre per sbaglio la botola della cantina, rivelando la carne macellata illegalmente. A quel punto, non riuscendo più a salvare il suo amico, lo fa arrestare dicendo: “A törvény mindenkire vonatkozik. Kommunistákra tízszeresen, százszorosan!” (La legge va applicata su tutti. E per i comunisti è dieci volte, cento volte più forte!). Di conseguenza, Pelikán viene mandato in prigione, ma ci resterà per poco, dopo una scarcerazione avvenuta con una modalità alquanto losca poco più tardi. Appena rilasciato, Pelikán cerca di fare visita al suo amico Dániel al ministero, ma nessuno sembra più ricordarsi di lui.
La sera di quello stesso giorno, Pelikán viene prelevato misteriosamente da casa sua e portato in un luogo sconosciuto, dove verrà accolto da Árpád Virág (Lajos Őze), un comunista paranoico, fremente e che vive di motti. Questi rimarrà il personaggio più iconico, da cui proverranno le frasi più celebri del film: “a nemzetközi helyzet egyre fokozódik” (La situazione internazionale si sta intensificando), “az osztályharc élesedik” (La lotta di classe sta diventando sempre più spietata) e infine, il mio preferito “az élet nem habostorta” (La vita non è tutta rose e fiori). Il compagno Árpád lo ricollocherà come capo in varie attività per comprare la sua testimonianza contro Dániel.
Il cuore pulsante del film sono i suoi dialoghi e le citazioni: le frasi celebri sono così numerose che diventano dei veri e propri slogan propagandistici atti ad alienare chi li ascolta. L’assurdità di questi mantra, unita ai dialoghi che potrebbero essere descritti come un tira e molla di semplicità goliardica ed inconsapevolezza, specialmente se unita al falso senso di autorità che pervade le figure del regime, rende il film un gioiello della satira.
Ma per quanto riguarda la tanto accennata critica al comunismo, il film mostra una varietà di situazioni abituali del Rákosi-korszak che il protagonista si ritrova a provare sulla sua pelle: cospirazioni fittizie e improbabili, corti giuridiche pilotate, incarcerazione per i crimini più stupidi, lo scambio di posizioni per favori al regime e la nomina di persone incompetenti per cariche a cui non hanno esperienza.
I riferimenti alla realtà storica non mancano, ed è anche per questo che lo status di cult permane tuttora. Il personaggio di Árpád Virág, infatti, è basato sul leader dell’ÁVH (Államvédelmi Hatóság, in italiano Autorità per la protezione dello Stato) Péter Gábor. Il suo ex quartier generale si trova al numero 60 di Ándrássy Út, oggi sede della Terror Háza, il monumento-museo delle vittime dei regimi nazista e comunista. Molti dei prigionieri ivi condotti venivano fatti scomparire nel cuore della notte a bordo di automobili con tendine ai finestrini, per bloccare la visione verso l’interno. Persino i lavori assegnati a Pelikán derivano da storie vere.
A Tanú rimane una prova estrema di sfacciataggine controllata, che riesce a trasmetterci, ancora al giorno d’oggi, un’immagine cristallizzata di un periodo storico quasi troppo assurdo per essere vero.